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Sedico: moglie suicida, tre anni al marito per maltrattamenti

Il medico del 118 Vigilanti condannato per le vessazioni alla coniuge, che poi si tolse la vita con un colpo di pistola

Marco Filippi
3 minuti di lettura
BELLUNO. Tre anni di reclusione, interdizione dai pubblici uffici per 5 anni, risarcimento da definirsi in sede civile con una provvisionale immediatamente esecutiva di 15.000 euro alla figlia, pagamento delle spese di costituzione di parte civile e delle spese processuali.

ono le 17 quando il giudice Antonella Coniglio legge la sentenza di condanna di Antonio Vigilanti, 57 anni, medico all'ospedale di Pieve di Cadore, accusato di aver maltrattato per anni la moglie Sandra Laino, insegnante di matematica alle Medie di Sospirolo, morta suicida nel giardino di casa a Sedico, il 14 maggio 2008, dopo essersi sparata un colpo di pistola alla testa.

Per arrivare alla sentenza di primo grado ci sono volute sei udienze dibattimentali, un anno dopo l'inizio formale del processo. Ieri l'ultimo atto con una discussione iniziata alle 11 del mattino e terminata con le repliche alle 16.30, dopo una pausa di due ore tra le 14 e le 16. Ma ecco le due tesi contrapposte, sostenute in discussione, da pubblica accusa e difesa.

La pubblica accusa. Alla fine della requisitoria il pubblico ministero Simone Marcon chiede la condanna dell'imputato a 3 anni, senza il riconoscimento delle attenuanti generiche. Il pm non ha dubbi che il professionista del 118 abbia avuto, nel corso degli anni, un comportamento vessatorio e opprimente nei confronti della moglie così da indurla a farla finita. In oltre un'ora di requisitoria, il magistrato ha ripercorso le linee portanti della pubblica accusa. È partito dal contenuto dei biglietti che la Laino lasciò nella camera da letto, prima di suicidarsi.

Biglietti, scritti in stampatello, nei quali accusava il marito di averle distrutto la serenità, di averla tradita con molte amanti, di non aver mai ricambiato il suo amore e di essere stata da lui accusata ingiustamente di avere avuto una relazione clandestina con l'insegnante di musica.

Il pubblico ministero ha sostenuto che nel corso del dibattimento il reato è stato indiscutibilmente dimostrato. Come? Dall'attendibilità dei testimoni della pubblica accusa, in primo luogo. Le colleghe e le amiche di Sandra Laino hanno tutte descritto in aula il dolore e la sofferenza dell'insegnante per i continui insulti, le botte e le umiliazioni che il marito le infliggeva.

«Il dolore e la sofferenza della Laino erano tali - ha spiegato il pm - da spingerla a sfogarsi con colleghe ed amiche, nonostante a tutti fosse nota la sua riservatezza». Testimoni attendibili, ha sottolineato Marcon, a differenza di quelli "evanescenti" della difesa che hanno dipinto la coppia di Sedico come tranquilla ed affiatata. «Vigilanti - ha continuato - era uno stimato professionista che doveva dimostrare agli altri che tutto era perfetto attorno a sè. Ma l'immagine esterna che il medico dava di sè e della moglie era del tutto incompatibile con la realtà interna alle mure domestiche».

Marcon s'è soffermato sugli episodi di violenza confidati dalla Laino alle colleghe, definendo Vigilanti una persona "facile agli scatti d'ira". Ed ha anche raccontato il rapporto burrascoso con la figlia che se n'era andata di casa, una volta raggiunta la maggiore età. Dunque, a suo giudizio, troppe prove che hanno inchiodato l'imputato.

La difesa. Un'arringa di oltre un'ora e mezza, per controbattere punto su punto alle tesi accusatorie. L'avvocato Anna Casciarri ha giocato diverse carte a sua disposizione. Ha puntato sulla forte depressione e sulle gravi condizioni psicologiche in cui versava la Laino negli ultimi tempi della sua vita. Ha sostenuto l'assenza di riscontri oggettivi delle violenze raccontate in aula dalle amiche e colleghe della professoressa. Ed ha precisato come la stessa pubblica accusa, nella richiesta di archiviazione di un altro reato inizialmente contestato al medico, si facesse riferimento al fatto che la Laino "era affetta da una grave prostrazione psichica che la condotta del marito ha in parte determinato". In parte, dunque, ma non totalmente.

Il legale ha affondato poi i colpi per quanto riguarda l'accusa al medico di aver impedito alla moglie di avere contatti con la figlia, dopo che se n'era andata da casa. «Non si capisce - ha detto il legale - come sia uscita dalla penna del pubblico ministero un'accusa del genere. I testi in aula hanno tutti confermato il fatto che la Laino si sentisse spesso con la figlia Giovanna. Vigilanti stesso durante un ricovero della moglie chiamò Giovanna per invitarla a visitare la madre all'ospedale. Vigilanti è stato dipinto come un pessimo padre: ma vorrei vedere quale padre non si preoccuperebbe di una figlia che quando aveva 13 anni riceveva dal fidanzato di 25 lettere in cui era scritto "Ti porto via". Un testimone in aula ha descritto la figlia come una bambina serena. Come può dunque una bambina crescere serena in un ambiente famigliare violento?».

Il legale si è soffermato su aspetti della vita famigliare di casa Vigilanti-Laino, in aperto contrasto con le accuse riferite nel capo d'imputazione. «Si è descritto Vigilanti - ha continuato l'avvocato Casciarri - come una persona che impediva alla moglie il contatto con l'esterno. Ma come si spiega il fatto che la Laino partecipava alla vita parrocchiale, andava ai corsi di pianoforte e di pittura?».

Ed sul particolare rapporto con il maestro di musica, il legale ha manifestato la sua convinzione che, proprio alla fine del 2006, quando lo incontrò, saltarono gli equilibri famigliari. «È da allora - ha concluso - che la Laino inizia a raccontare in giro dei presunti maltrattamenti del marito. Se il dottor Vigilanti ha una colpa è quella di non essersi accorto di quanto gravi fossero le condizioni psicologiche della moglie. Il fatto di averla tradita, nonostante sia un indubbio peso che si porterà per tutta la vita, non è un motivo per condannarlo. Per quanto riguarda gli insulti e le percosse, nessun testimone è riuscito a circoscrivere gli episodi, né temporalmente né numericamente. Nessuna prova che giustifichi una condanna».
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