Il museo cadorino depredato durante “l’anno della fame”
Nel 1917 dalla sede in centro a Pieve scomparvero molti importanti reperti tra cui il primo ritrovamento archeologico della zona, un cavallo di bronzo
di Vittore Doro
PIEVE DI CADORE. L’invasione del Cadore da parte delle truppe austro-ungariche e germaniche conseguente alla rotta di Capporetto, nell’ottobre – novembre 1917, non portò solamente a quello che è rimasto nel ricordo comune della popolazione rimasta in Cadore, come il periodo più duro dell’intera guerra “l’Anno della Fame”, ma anche la scomparsa, per dispersione, di opere d’arte, reperti archeologici e beni culturali.
Tra questi il danno maggiore lo ebbe Pieve, dove fu distrutto l’antico patrimonio storico-culturale-archeologico raccolto con passione e amore dai cadorini fino allora in una unica struttura: il vecchio Museo cadorino. Questa istituzione era nata e si era sviluppata in un momento storico importante per il Cadore: nella seconda metà dell’Ottocento, quando anche qui la popolazione aveva iniziato a sentire il fascino dell’Unità d’Italia, e quasi nella sua globalità, ne condivise gli ideali.
Gli avvenimenti connessi con il dominio austriaco, l’insurrezione del 1848 ed il suo epilogo tragico, la battaglia di Treponti del 1866, quando un manipolo di cadorini riuscì a bloccare in quella località l’esercito austriaco, la conseguente liberazione e l’annessione al Regno d’Italia, comportavano la fine del Risorgimento e il passaggio ad un periodo di sviluppo basato su nuove condizioni politiche e amministrative, ma condizionate all’inizio di una fase di emigrazione che segnò l’intero secolo successivo.
È vero che in quegli anni arrivarono il telegrafo, gli uffici postali, il monumento a Tiziano Vecellio e la Regina Margherita scoprì Perarolo e le Dolomiti, ma il territorio non riuscì ugualmente a decollare. Per "animare" l’economia, si pensò di mettere in mostra quanto il Cadore produceva dando vita alla Mostra Cadorina nella quale vennero esibite tutte le produzioni del territorio. Nei cinquant’anni che vanno dall’epopea di Pietro Fortunato Calvi al 1917, era nata anche una struttura museale che aveva trovato la sua sede nel Palazzo Jacobi e che raccoglieva innumerevoli oggetti, reperti archeologici, opere d’arte: un vero patrimonio di testimonianze degli anni e dei secoli passati che era diventato un punto di riferimento per l’Italia intera.
Non fu un caso se nel 1877 grazie alla nascita della Sezione Cadore del Cai, il Club Alpino Italiano tenne nelle Dolomiti il suo X Congresso Nazionale: la possibilità di trovare un museo nel quale fossero racchiusi tutti i reperti necessari per conoscere l’origine di queste montagne, fu determinante per stabilire la sua ubicazione.
Anche nei primi anni del 1900, il Museo cadorino continuò ad arricchirsi, diventando sempre più frequentato. L’anno dell’invasione austriaca del 1917, per la struttura museale fu fatale: dalla sede di Pieve sparirono i quasi tutti i reperti che vi si trovavano, compreso il primo ritrovamento archeologico cadorino, avvenuto nel secolo XVI, e che è testimoniato da un artista illustre: Cesare Vecellio, che lo segnala nel suo “Degli habiti antichi et moderni” quando racconta che “un contadino di un paese del Cadore facendo una cava, ritrovò fra le altre cose un piccolo cavallo di bronzo ricoperto di pelle di leone, al quale mancava un piede, che ora si trova presso la famiglia Mainardi e io l’ho avuto nelle mani, contento nel vedere la bella maniera dei nostri antichi in questi lavori”.
Peccato che il cugino di Tiziano non abbia citato il paese. Da allora i ritrovamenti si susseguirono in molte località cadorine. Tra essi anche numerose monete romane, elmi, scheletri, almeno 60 lapidi. Al ritrovamento di reperti importantissimi per la storia cadorina, vanno aggiunte anche almeno altre 21 opere d’arte, come la Dedizione del Cadore alla Serenissima e il Giuramento di fedeltà. Insomma, una vera miniera di reperti, monete e opere d’arte.
Un elenco molto importante e dettagliato, è stato realizzato da Antonio Genova, uno studioso che ha ricercato a lungo negli archivi le tracce degli oggetti che facevano parte del Museo cadorino, anche se l’autore ritiene il suo elenco "non esaustivo". Sarebbe però ingiusto ascrivere solo all’invasione austriaca la dispersione dell’intero patrimonio del Museo cadorino. Molto probabilmente la sua fine fu decretata dagli stessi consiglieri cadorini, dopo il 10 gennaio 1915, quando in seguito ad una situazione economica disastrosa, convocati dal sindaco di Pieve, i sindaci di tutto il Cadore si radunarono con le loro giunte, perché all’ordine del giorno era stata inserita la proposta dell’alienazione e ripartizione dei beni della Magnifica Comunità.
Dunque c’era già la volontà di distruggerlo, magari vendendone i reperti. In quell’occasione si formarono due partiti: i conservatori e i dissolvitori. Vinsero i conservatori, ma fu evidente che i beni dell’ente, compresi i reperti del museo, facevano gola a molti. In quel momento non successe nulla: la guerra era alle porte e tutto rimase congelato.
Ancora una volta, dopo un confronto molto acceso, prevalse il buon senso: fu riaffermata l’indistruttibilità della Magnifica Comunità e l’impegno per la conservazione dello storico palazzo con l’annesso archivio e il Museo cadorino. Per lenire la situazione economica, venne deciso di utilizzare meglio il patrimonio boschivo dell’ente, anche vendendone una parte.
Alla fine, con un solo voto contrario sui 15 aventi diritto, la Magnifica Comunità decise di sopravvivere e salvaguardare il Palazzo con i beni in esso contenuti, compreso in questi anche il Museo cadorino con le sue prezione collezioni, che in quel momento era ubicato nel Palazzo Jacobi, di fianco alla sede della Magnifica Comunità ed ora sede della banca Unicredit.
Tutto rimase fermo fino all’ottobre-novembre del 1917, quando arrivarono le truppe austro-ungariche e germaniche che invasero ed occuparono il territorio. Non è mai stato chiarito se lo smembramento del Museo cadorino avvenne su ordine del comando militare, oppure se fu solo iniziativa dei singoli militari. Tutto sembra portare alla seconda ipotesi. Che non si sia verificata una "spogliazione di Stato", come avvenne durante la seconda guerra mondiale nei territorio invasi dai tedeschi, è quasi certo per il semplice fatto che sparirono solo le opere d’arte e i reperti di piccole dimensioni, mentre alcuni quadri di grande valore anche commerciale, come la famosa “Dedizione del Cadore alla Serenissima” di Cesare Vecellio e tutte quelle esistenti nella chiesa arcidiaconale, sono rimaste al loro posto.
Probabilmente, come succede quando un patrimonio rimane incustodito, si verifica una "rapina" giornaliera di questo bene. Un fenomeno che si è verificato ad ogni cambio di occupanti, anche nelle caserme e nei depositi militari. Un fatto è certo: della grande quantità di cimeli, reperti, opere d’arte esistenti nel Museo, ben poco rimase al suo posto e sarebbe interessante verificare quanti di questi reperti e quante opere d’arte, con la scusa dell’invasione, invece che nelle case dei soldati austro-ungarici, siano stati “salvati dai cadorini” ed oggi facciano bella figura sulle pareti delle loro abitazioni o nelle vetrine dei loro salotti.
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