«Con la crisi del latte il 20% chiuderà»
Allarme delle associazioni di categoria. «Il peggio è che non si vedono prospettive». Ma qualche azienda di nicchia va bene
di Martina Reolon
BELLUNO. Se la crisi del latte si prolungherà anche nei prossimi mesi, molte stalle della provincia saranno destinate a chiudere. «Ci sono già alcune realtà che hanno dovuto cessare l’attività», fa presente Silvano Dal Paos, presidente Coldiretti Belluno. «Il numero non è elevatissimo. Ma quelli in difficoltà e sull’orlo del baratro sono numerosi. E se la crisi del settore lattiero-caseario continuerà ancora, anche solo fino a settembre-ottobre, il 20% di chi lavora nel comparto dovrà chiudere».
Il crollo del prezzo del latte e tutto ciò che ne consegue, certo non rappresentano l’unico problema che attanaglia il mondo dell’agricoltura. Ma sono andati senz’altro ad accentuare una situazione già critica, visto che il 70% dell’agricoltura bellunese vive grazie alla produzione di latte e carne.
Tant’è che allo stato attuale «siamo alla disperazione», dice ancora Dal Paos. «Il peggio è che non si vedono prospettive di miglioramento. I consumi vanno a calare e anche le recenti campagne contro la carne rossa hanno influenzato l’attività degli allevamenti».
E se le aziende chiudono le ripercussioni sono ampie: «Terreni e prati vengono abbandonati», continua Dal Paos, «e si arriverà a un punto in cui il pubblico dovrà pagare i privati per fare pulizia e manutenzione. Per questo anche gli amministratori locali, quando si parla di terreni in stato di abbandono, dovrebbero mettersi una mano sulla coscienza. Qualche speranza è stata riposta qualche anno fa nel decreto “Campolibero” e nella legge regionale denominata “Banca della terra”. Purtroppo, finora, manca l’applicazione».
A questo si aggiungono vincoli e regolamenti farraginosi “scaricati” sull’agricoltura. «Dovremo decidere di andare tutti a lavorare in fabbrica?», si chiede Dal Paos. «Ricordiamo, però, che così non si mangerebbe più. E a risentirne sarebbe l’intero territorio, anche dal punto di vista turistico».
Mauro Alpagotti, direttore della Cia, ricorda che la ristrutturazione del settore zootecnico, avvenuta tra la metà degli anni Ottanta e fino al 2000, ha portato già allora, nella parte alta della provincia, alla chiusura di diverse aziende, con conseguente spopolamento.
«Con la crisi attuale», commenta, «il problema reale è che le chiusure avvengano anche in Valbelluna. Quel che è accaduto tra 2015 e 2016, se non si interviene, segnerà profondamente il sistema produttivo, e anche il paesaggio. L’altro discorso è di tipo sociologico: gli imprenditori agricoli, ma non solo, soffrono di un senso di abbandono da parte delle istituzioni. E provano sconforto e rassegnazione. Per questo i giovani lasciano il territorio. La montagna deve essere presa nel suo complesso, considerando imprese, persone e territorio, ma la politica, purtroppo, fa solo interventi spot».
Da notare il fatto che la crisi del lattiero-caseario ha portato alcune realtà a diversificare, «ma la multifunzionalità non è ancora abbastanza spinta», aggiunge Alpagotti. «C’è da dire, d’altra parte, che alcune attività di nicchia vanno abbastanza bene: c’è una ripresa, per esempio, per quanto riguarda il settore forestale. Ci sono aziende che si cimentano nelle orticole. Nella parte bassa della provincia è interessante la riqualificazione dei bovini da carne, per cercare di non rimanere legati solo alla produzione di latte».
Sta di fatto che, di fronte all’assenza della certezza di un reddito adeguato, la gente abbandona lavoro e territorio. «Nel settore agricolo, con il Psr per esempio, abbiamo avuto degli interventi che hanno creato aspettative», sottolinea Diego Donazzolo, presidente Confagricoltura Belluno, «con aziende che hanno investito e sono cresciute. Poi, però, si è “perso” qualcosa. Continuiamo a soffrire della concorrenza sleale di regioni e province confinanti. E le misure intraprese per le nostre aziende sono insufficienti». Secondo Donazzolo, allo stato attuale quella agricola è percepita come un’attività secondaria. «Deve invece riappropriarsi del proprio ruolo», dice, «e, allo stesso modo, la montagna deve riacquistare la propria funzione. In generale, le aree montane devono godere di una defiscalizzazione particolare, per tutte le attività, non solo per l’agricoltura».
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