Storia di Paolo e Silvia, dal rifugio Sora’l Sass al Comune di Rocca
Si sono conosciuti all’università, corso di interculturalità e cittadinanza. La vita in camper in attesa di una casa a Voltago dopo il posto a Rocca
Gianni Santomaso
Da luglio Silvia e Paolo vivono in un camper a Malga Ciapela. Niente di eroico o sui generis. Solo una soluzione temporanea prima dell’acquisto di una casa che, a breve, dovrebbe concretizzarsi a Voltago. Avevano bisogno di trasferirsi in fretta dopo che Paolo aveva vinto il bando per un posto all’anagrafe al Comune di Rocca Pietore, ma allo stesso tempo volevano guardarsi attorno con calma per configurare al meglio la scelta della loro nuova abitazione dopo quella di lasciare contemporaneamente sia la città che un modo di fruire la montagna in cui non si riconoscevano più.
Silvia Segalla, 38 anni, originaria dell’Alto Vicentino, e Paolo Scandolin, 40, della periferia trevigiana, si sono conosciuti all’università di Venezia, corso di laurea specialistica in interculturalità e cittadinanza sociale. «Scienze sociali», semplificano loro.
Poi si sono persi di vista, quindi si sono ritrovati un po’ casualmente e hanno deciso di condividere un pezzo di vita, prima alternando la stagione in rifugio a quella a Villorba, oggi muovendo i primi passi nella comunità agordina. L’ambito della ricerca che entrambi avevano intrapreso post laurea non è riuscito a soddisfarli appieno.
Dopo un anno di servizio civile e tre di dottorato a Padova sulla cultura alimentare del Veneto, Silvia si stava interrogando. «Non mi piaceva come quel tipo di lavoro mi faceva essere nella vita normale – dice – avevo perso spensieratezza e allora ho maturato l’idea che è importante come ci si costruisce in quello che si fa e non solo quello che si costruisce». La possibilità di uscire da questa impasse gliela offre inconsapevolmente Paolo che intanto, nel 2014, si è ricordato dell’esperienza da ventenne al rifugio Pramperet allora gestito dai genitori, e ha deciso di buttarsi. Partecipa al bando per la conduzione del Sora’l Sass-Giovanni Angelini in Val di Zoldo e se la aggiudica.
Silvia, intanto, chiacchiera in città. «Ma tu hai più visto Paolo? » – le chiede un amico comune – «so che ha preso un rifugio». E così Silvia chiama Paolo che rifiuta altre candidature e la assume. «La prima estate abbiamo lavorato poco – ricorda lui – pioveva sempre. In compenso ho letto tanti libri». Silvia, dal canto suo, ha avuto il tempo per continuare la sua attività di ricerca tesa in particolare a capire meglio il posto dove si trovava. Un tratto che, anche a distanza d’anni, è rimasto una sua caratteristica. «Mi interessavano i viaz – dice – lo sguardo che offrono su quella montagna zoldana e sull’approccio ad essa: non arrivano in cima, ma compiono delle traversate sulle cenge. È una modalità di fruizione dei monti molto diversa da quella dell’alpinismo sportivo imperniata sulla performance». Ripercorrere la storia di quei viaz, delle tracce lasciate nel tempo da cacciatori e portatori, di una terra «non selvatica, ma inselvatichita, che sembra incontaminata ma non lo è», li affascina entrambi.
Al Sora’l Sass Silvia e Paolo restano otto anni, fino al 2021. Stagione dopo stagione qualcosa però si incrina tra loro e la modalità di fruizione del rifugio da parte dell’utenza. «Io ho un ricordo bellissimo dei primi 4-5 anni – dice Paolo – non perché si guadagnasse chissà quanto, ma era bello vivere lì, avere il tempo anche per girare attorno, per parlare con i locali e con la gente che arrivava. Poi il tipo di turismo è cambiato ed è cambiato il tipo di lavoro». «Prima – aggiunge Silvia – anche quando facevamo fatica, eravamo appagati dal vedere persone che venivano per passare la giornata in montagna e apprezzavano le cose semplici che noi offrivamo loro. Poi il motivo principale dell’arrivo al rifugio non è più stato la montagna, ma il contorno. E allora ecco che si scocciano per quello che non va, senza considerare che sono in un posto splendido, senza auto, senza camion. Ecco che si lamentano dicendo: “Hai solo quei tre tipi di torta?!” invece di pensare che avere tre tipi di torta in un rifugio è già una gran cosa. Inoltre l’aumento del numero di turisti che abbiamo conosciuto già dopo il 2018, ma soprattutto con la pandemia, ha ridotto i tempi e le possibilità di interagire noi con i clienti e loro con noi». Paolo parla di «un’attitudine predatoria del turista» che di fatto ha finito per far loro mettere in discussione pure il progetto “Rifugi di cultura” che avevano attuato partecipando al bando Terre Alte del Cai.
«Avevamo fatto degli eventi interessanti – dicono Silvia e Paolo – chi veniva era contento e soddisfatto. Però, finché ciò era un valore aggiunto a quello che già il posto offriva andava bene, ma con il cambiamento delle dinamiche turistiche qualcosa ha iniziato a scricchiolare anche qui: se l’evento culturale al rifugio non porta a sviluppare un discorso più ampio per capire il bosco, l’ambiente che ti circonda, non è più una cosa positiva, né per l’ambiente, né per i residenti, il cui punto di vista, quando si parla di turismo, non può essere dimenticato».
Terminato il contratto al Sora’l Sass, Silvia e Paolo tornano in pianura a Villorba, dove già passavano l’inverno. Anche questa realtà, tuttavia, finisce presto per risultare stretta. «La pianura – spiega Paolo – è diventata invivibile per l’inquinamento, per la cementificazione che non subisce sosta, per i supermercati che spuntano uno di fronte all’altro, per il deserto culturale che a Treviso si è creato». Su questa analisi si fonda la domanda che Silvia invita a farsi. «Prima di chiederci in che direzione debba andare la montagna – dice infatti – dovremmo interrogarci su quale direzione debba intraprendere la pianura».

In attesa che quest’ultima accolga il suggerimento, Paolo scova il bando per un posto da impiegato a tempo indeterminato all’anagrafe al Comune di Rocca Pietore e, un’altra volta, lo vince. Si parte di nuovo. Per l’Agordino, stavolta, che, vista la continua difficoltà a completare gli organici negli enti pubblici, ringrazia.
«Mi trovo bene – dice lui – l’ambiente di lavoro che ho conosciuto in questi primi due mesi è molto positivo». Silvia, mentre è intenta a studiare per conseguire la laurea magistrale in filologia, si sta orientando. «Sto cercando di capire – dice – come portare avanti da un lato la pratica della ricerca, dall’altro l’impegno sociale che già avevo profuso nella Caritas e nel volontariato. A Villorba non sono riuscita a trovare tanto, ma nemmeno a dare tanto. Qui vorrei intanto riuscire a comprendere meglio le sfaccettature della società in cui sono arrivata e poi tentare di portare qualcosa di positivo al territorio».
Un territorio di cui, muovendosi in punta dei piedi, i due hanno già colto alcuni aspetti. «Cercando casa – dicono – ci siamo imbattuti in prezzi molto alti nelle zone di villeggiatura. Un elemento che ci ricorda come il turismo porti con sé varie conseguenze per chi qui vuole abitare e come servano politiche per la residenzialità in modo da sviluppare professioni e servizi anche oltre quelli turistici. È compito della politica far capire perché certe scelte di lungo respiro possano rivelarsi migliori per l’intera collettività».
Intanto, camminando per le strade agordine, Silvia cova un desiderio più semplice, ma non meno significativo. «L’altro giorno ero con mia mamma nel suo paese – dice – mentre passeggiavamo tutti la salutavano chiamandola per nome. Mi piacerebbe che qui, un po’ alla volta, accadesse la stessa cosa a me e Paolo».
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