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Braccata dal capoturno, spuntano foto. «Ero impaurita e sola, denunciare è la cosa giusta»

Intervista alla giovane ex dipendente Costan che ha portato a processo il suo superiore. I timori, il percorso giudiziario, la nuova vita carica di speranza

Cri.Co.
Aggiornato alle 5 minuti di lettura
Una delle aggressioni subite dalla giovane operaia 

I fotogrammi di una aggressione che terminava poi in abusi, molestie. Una ringhiera separa le abitazioni di due famiglie, quella del capoturno Costan finito sotto processo, e quella della sua vittima. Le immagini, i fotogrammi mostrano una donna presa di spalle da un uomo che la sovrasta e la stringe al collo: lei che cerca di urlare, divincolarsi. Sono immagini molto forti, ma importanti. Non si trovano fra gli atti del processo che vede imputato un sessantenne di Borgo Valbelluna, capoturno della Costan, accusato di stalking e violenza sessuale sull’operaia vicina di casa. Denuncia del dicembre 2020.

Le immagini non sono negli atti del dibattimento perché del video che contiene i fotogrammi dell’aggressione, si erano perse le tracce: «Fra separazione con mio marito, trasloco e cambi di telefonino, non sapevamo più dove fosse finito» spiega al Corriere delle Alpi la donna vittima degli abusi. All’epoca di molestie e abusi, però, c’è stato chi ha visto il filmato tanto è vero che negli atti processuali figurano le testimonianze rese da chi lo vide. Anche la parte civile, la giovane trentenne, aveva descritto una di quelle aggressioni: «Mi ha sorpreso alle spalle, agganciandomi con un braccio all’altezza del collo e provocandomi una sensazione di soffocamento, mentre con l’altra mano mi ha palpeggiato il seno. Questo è stato il primo episodio, ma nella primavera dell’anno dopo è entrato nelle pertinenze di casa, riuscendo a baciarmi sulla bocca con la forza», e altro ancora, ha raccontato al collegio giudicante.  Ora questi atti sono anche tangibili: sono saltate fuori quelle immagini riprese con un vecchio telefonino: screenshot recuperati. Potenziali prove per il processo, da sole basterebbero semmai vi fosse bisogno di aggiungerne, considerando le prove testimoniali.

Al punto in cui si è arrivati in dibattimento (ormai c’è la disscussione), queste foto potrebbero essere acquisite solo nel caso in cui sia il Tribunale a chiederlo, manifestando interesse per qualcosa di determinante ai fini del giudizio. In aula si torna il 19 aprile: il difensore Cesa che deve controbattere una richiesta di condanna formulata dalla pm Roberta Gallego: 7 anni e mezzo. La parte civile con l’avvocato Enrico Rech chiede risarcimento di 50mila euro. 

L’intervista all’ex operaia

«Vorrei che questa vicenda aiutasse altre donne come me che hanno subito violenza: perchè denuncino. Anche sole troveranno sempre qualcuno che ascolta».

Ha un nome che da solo dissolverebbe la paura, la trentenne vittima di violenza e stalking da parte del capoturno della Costan, anche suo vicino di casa. Ma per denunciare abusi e molestie spesso non bastano forza interiore e aria ribelle: bisogna sempre dimostrare che quella mano morta è una ignobile palpata, vincere pregiudizi e luoghi comuni, far capire ai superiori che sei ricattato. Tu, le altre.

Poco più che trentenne, dal 2018 al 2020 la donna è stata oggetto di attenzioni più che morbose, messaggi sconci, molestie, aggressioni. Ora il suo caso è un processo nel quale, grazie alla sua denuncia il presunto autore è imputato di vari reati a sfondo sessuale e stalking. Lei è parte civile (assistita dall’avvocato Enrico Rech). L’accusa (pm Gallego) ha chiesto 7 anni e mezzo di condanna per il 60enne, licenziato per giusta causa e che ha impugnato il provvedimento.

La storia è quella di una ragazza che lavora, al tempo “a contratto”. Che subisce un doppio sopruso: non essere presa sul serio dagli affetti più cari.

Cosa ha pensato quando ha capito che stava succedendo proprio a lei?

«Non vivevo più. Cercavo di stare fuori casa il più possibile...ho fatto persino un corso di subacquea per non stare a casa e non subire. O mi barricavo, non uscivo per evitarlo».

Cosa invece spinge a fare un passo così importante, con i rischi che si possono correre perchè qui in gioco c’era il posto di lavoro.

«Non è mai facile arrivare a questa decisione e non ho mai trovato un supporto che mi spingesse. Mai trovato la persona che mi dicesse: “stai facendo la cosa giusta”. Mi sono sentita molto sola in quel periodo. Poi quando ho trovato la persona con cui ho potuto confidarmi, perché era una situazione che non riuscivo più a sostenere, ho avuto lo sprone a denunciare».

Si è sentita di aver spezzato un qualcosa di inviolabile? La parola, “violenza”, si fa ancora fatica a pronunciare o denunciare?

«Sì. Per me è stata una liberazione e spero che questa mia denuncia serva anche ad altre donne: deve servire! Perché non abbiano vergogna, perché io l’ho provata la vergogna, perché c’è paura di non essere creduti per quel che si racconta. E una cosa importante è il Muro delle bambole che nascerà anche qui per aiutare altre persone in questo stato, contro ogni violenza».

Quale clima intorno a lei? Coi colleghi, sul luogo di lavoro, i famigliari. Qualcuno ha minimizzato o l’hanno sostenuta in queste scelte?

«Ho avuto il sostegno soprattutto di una collega del sindacato interno e tuttora ci sono molti colleghi che non si perdono un’udienza in tribunale. La Fiom mi ha sostenuto tantissimo e all’inizio mi ha aiutato quando avevo bisogno di andare in fabbrica non da sola. Loro mi hanno aiutato a trovare una soluzione a quel che stavo subendo: se avevo bisogno sapevo che da loro potevo trovare conforto e sostegno. Anche la consigliera di parità mi ha aiutata, figura non tanto conosciuta nei luoghi di lavoro ma è la prima dalla quale vai a confrontarti. Poi “Belluno donna” mi ha sostenuto moltissimo: dopo due anni ho ancora bisogno di supporto psicologico, il mio percorso non è finito».

“Lui” era un preposto e come emerge dagli atti non faceva mistero dei comportamenti anche verso altre operaie, specie interinali.

«Di fatto era un superiore quindi aveva una sorta di controllo del reparto. Devo dire, nella mia solitudine, che alla fine la sede centrale ha licenziato il dipendente per quello che ha fatto, licenziamento per giusta causa. Per me c’è sempre stata la difficoltà a essere creduti: prima la vergogna ci blocca, poi bisogna dimostrare gli abusi, e ci si scontra con l’incredulità delle persone. E l’ambiente è difficile quando ti trovi con tanta gente: perchè se ti succede qualcosa del genere e la racconti, è sempre un mettere la donna al centro dell’attenzione, senza che ti conoscono. Cioè, l’idea più classica è che la donna se le cerca. Ecco, l’ambiente è fondamentalmente scettico: quello dei rapporti più stretti, e dell’ambiente in cui ci si muove giornalmente».

Non solo fabbrica: quell’uomo era il suo vicino.

«D’estate, prima di uscire in giardino guardavo se lui era fuori; così anche per stendere i panni. Ma lui parcheggiava la macchina dietro e spesso non sapevo che fosse in casa. Arrivava come un avvoltoio, ero costantemente in ansia, faceva i suoi commentini. Io scrivevo al mio ex marito perché mi portasse qualcosa fuori, anche gli auricolari e con quella scusa facesse vedere che era in casa, perché vedendolo lui mi lasciava in pace. Per me era un costante mettermi in sicurezza, nel mio giardino con estrema difficoltà. Una fonte di stress impressionante. Questa cosa mi ha causato un divorzio, la necessità di traslocare e successivamente cambiare lavoro».

Ora le foto di una aggressione nel patio di casa.

«Il video si era perso tra separazione, trasloco, cambio di telefonini e computer. Alcune persone alle quali lo avevo fatto vedere all’epoca hanno poi testimoniato al processo e hanno riferito di averlo visto. Ora in un Pc sono stati trovati dei fotogrammi: avevo fatto degli screenshot ed evidentemente li avevo salvati. Le foto mostrano una aggressione che in realtà si è ripetuta altre tre o quattro volte. Mi prendeva, mi teneva le braccia intorno al collo e stringeva: non credevo che arrivasse a quel punto. So che anche altri hanno subito lo stesso trattamento ma non hanno voluto parlare».

Che messaggio per colleghe o altre donne che stanno subendo abusi simili?

«Che ho avuto paura anche io quando ho deciso: paura delle conseguenze e di tutto. E comunque la paura resta anche adesso perché fino a quando non è finito tutto questo non stiamo tranquilli. Direi alle donne di trovare una persona di cui ci si fida per confidarsi. Direi loro di non nascondersi: queste cose debbono uscire se vogliamo affermare il diritto di poter vivere tranquille. E di cercare sempre aiuto: se si è soli, “Belluno donna” aiuta con altri enti come la consigliera di parità, polizia e carabinieri».

Cos’è “Il muro delle bambole”?

«Wall of dolls è fondato da Jo Squillo e sto cercando di organizzare qualcosa anche qui: abbiamo già l’ok di un assessore. È un simbolo importante: a livello emotivo per me andare lì è stato molto impattante e può essere una buona opportunità anche a Belluno per sensibilizzare tutti sul tema». 

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