La storia di Giulio Speranza: da Sois fino in Sardegna per morire da eroe a 22 anni
Era il 1948 quando il militare fu ucciso dai banditi mentre tentava di sventare una rapina. Aveva preso servizio nell’isola da un solo mese. Il paese di Arbus lo ha ricordato 75 anni dopo
Cristina Contento
«Maresciallo sono contento di morire perché ho fatto tutto quello che potevo... Mi spiace solo di non aver potuto impedire che quei vigliacchi mi portassero via il mitra». Giulio Speranza, carabiniere di Sois in servizio in Sardegna, si era appena preso una fucilata all’addome e stava morendo, lì a terra nel palazzo della Società delle miniere di Lord Brassey, nel quale aveva tentato di sventare la rapina degli stipendi dei minatori.
Uno dei nove banditi protagonisti dell’assalto – che fruttò all’epoca (il 1948) 18 milioni più assegni e altri titoli e due morti – gli prese il mitra d’ordinanza, mentre il bellunese era lì a terra agonizzante.
Aveva 22 anni all’epoca Giulio Speranza ed era al suo primo incarico con l’Arma dopo il corso d’ordinanza a Roma: classe 1925, a gennaio del 1948 fu destinato a Ingurtosu, in provincia di Cagliari. Morì un mese dopo o poco meno.
Una tragedia che oggi, 75 anni dopo, viene celebrata in quei luoghi della Sardegna: il carabiniere Speranza da Sois è l’eroe che a 22 anni ha sacrificato la sua vita per difendere le paghe dei minatori e per combattere il banditismo.
Coraggio, attaccamento al dovere, morte: Speranza fu decorato di medaglia d’argento al valor militare alla memoria. Gli furono quindi intitolate la caserma carabinieri di San Gavino Monreale e una pubblica via a Sois. Ora una sua foto e una targa in suo ricordo verranno inserite nella sala consiliare del Comune di Arbus, mentre giusto il 14 maggio gli è stato dedicato l’evento “Monumenti aperti-75° anniversario dal sacrificio del carabiniere Giulio Speranza” organizzato ad Ingurtosu, frazione di Arbus, insieme con i bambini dell’elementare di Arbus.
Con loro, il maresciallo dei carabinieri Gianluca Passalacqua, che ne sta tramandando le gesta e ha scritto anche un testo storico su Speranza. Figlio d’arte (il papà di Passalacqua è il comandante della stazione intitolata a Speranza), il 28enne sardo ha scritto la storia del bellunese quando ne aveva 22: «La stazione dei carabinieri in cui ho vissuto», racconta Passalacqua, «è intitolata a Speranza e da piccolino ho partecipato a un presidio di legalità in cui erano presenti i famigliari del carabiniere ucciso: sono stati loro a donare la medaglia d’argento di San Gavino Monreale, affinchè fosse esposta per ricordare il loro congiunto ucciso. Quanto a me, andando a trovare mio papà in ufficio, da bambino leggevo quella targa e sono rimasto colpito dal gesto compiuto dal giovanissimo carabiniere, per me un esempio da seguire».
Gesta pagate con la vita, quell’eroismo che fa breccia, esaltato dalla divisa indossata... In realtà la vita di un giovane di 22 anni ucciso in un paesino di 5000 anime dell’epoca (oggi sono 14mila), lui che arrivava in Sardegna da un piccolo borgo di montagna con l’Italia appena costituita. Speranza che lotta contro il banditismo sardo e sulla cui morte guiderà le indagini “tale” Romano Dalla Chiesa, papà del generale Carlo Alberto, finito sotto fuoco mafioso ai tempi nostri. Destini che alimentano una storia tragica che oggi giunge nel Terzo millennio come la favola del giovane eroe.
La racconta così Passalacqua. «Il 9 febbraio del 1948 si verificò una rapina presso il palazzo della direzione della miniera: il centro era uno dei maggiori dell’isola. In miniera si estraevano piombo e zinco: si pensi - sottolinea il maresciallo - che parte del soffitto della basilica di Notre Dame fu rinforzato con il piombo della miniera di Montevecchia, lo stesso filone di quella di Ingurtosu (poi chiusa)».
Il giro economico era notevole: «Nel palazzo della direzione al momento dell’assalto c’erano 18 milioni di lire più vari assegni della società Pertusola che gestiva la miniera, Lord Brassey proprietario. Speranza arrivò con un collega perché avvertito di una rapina in atto: dentro c’erano venti impiegati presi in ostaggio e i soldi. Nove i malviventi, armati di tutto punto ( bombe a mano fucili): con il lancio di bombe a mano ferirono una guardia mineraria, mentre un civile che quel giorno si trovava all’interno dei vari pozzi minerari, si prese un calcio di fucile» in faccia. Speranza tentò di introdursi e liberare gli ostaggi, volendo sorprendere i rapinatori: «Fu invece scoperto e ucciso con una fucilata; l’altro carabiniere riuscì a salvarsi mentre il capo delle guardie della miniera fu ucciso dentro il palazzo, nel tentativo di bloccare uno dei malviventi».
Le indagini furono affidate ai carabinieri: il colpo fu indicato come il più temerario, finì sui giornali, dall’Unione sarda al Corriere della Sera: due morti e oltre 18 milioni volati via. «Si pensava che i nove fossero arrivati dal continente via mare invece che far parte di una banda sarda: furono tutti arrestati ed erano tutti locali», continua Passalacqua. «Le indagini della Compagnia di Iglesias e della stazione di Ingurtosu furono seguite anche da Romano Dalla Chiesa, il papà del generale Carlo Alberto: all’epoca era comandante della quarta brigata di Roma ed ebbe l’intuizione di suggerire all’allora comandante l’individuazione di un solo sottufficiale che se ne occupasse: così fu individuato il maresciallo maggiore Mario Lecis, comandante stazione Guspini (a lui l’ encomio solenne per l’operazione, il massimo riconoscimento concesso dal comando generale dell’Arma). Insomma, qualcuno può vederci una sorta di metodo d’indagine antesignano degli odierni “pool” contro mafia e terrorismo.
E Lecis sembrò un “Capitano Ultimo”: «Scoprì che il capo della banda era un temuto ergastolano evaso dal carcere di Alghero, fece interrogatori», ricostruì con i colleghi le relazioni dei banditi fino a bloccarli. «In cinque furono intercettati alla frontiera con la Francia e uno di questi confessò l’omicidio del carabiniere Speranza».
Speranza fu sepolto in Sardegna, ma come in tutte le storie di eroi, i colleghi decisero di raccogliere il denaro per la traslazione della salma a Belluno, al cimitero di Sois: «Un grande gesto dei singoli militari dell’Arma sarda che permise ai famigliari di piangere il loro ragazzo di 22 anni».
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