Fuori Benito Mussolini, dentro Gabriele Arrigoni: l’ex dentista bellunese tra i soci onorari del Cai
Ha 82 anni ed è iscritto alla sezione di Belluno da settanta. «Andavamo al 7° Alpini con le bombole del gas sulle spalle»
Francesco Dal Mas
Albo d’oro del Club Alpino Italiano. Fuori Benito Mussolini, dentro Gabriele Arrigoni. Medico dentista di Belluno, 82 anni, Arrigoni è da circa settant’anni iscritto al Cai. L’assemblea dei delegati, riunitasi nello scorso fine settimana a Biella, lo ha proclamato “socio onorario”.
I delegati hanno cancellato Mussolini e hanno inserito lei per l’impegno di una vita dedicata alla montagna. Quel nome era davvero ingombrante?
«Evidentemente sì. Poteva essere tolto prima, perché si tratta di una storia ormai chiusa. Il Club alpino è sempre stato una palestra di libertà e di democrazia».
In settant’anni, com’è cambiato il Cai?
«Come è cambiata l’Italia, anzi come sono cambiati gli italiani, nel bene e nel male. Non sono un passatista, ma la passione e il disinteresse che animavano il nostro volontariato negli anni del consolidamento del Club alpino, oggi non si palesano in modo così evidente».
Lei è stato presidente della sezione di Belluno del Cai negli anni pionieristici…
«Sì, negli anni in cui non c’era la teleferica per portare le bombole del gas al 7° Alpini. Quando andava bene, le trasportavamo a dorso di mulo, altrimenti a spalla».
Quando è salito, ovviamente a piedi, l’ultima volta al 7°?
«L’anno scorso, e debbo ammettere che ho fatto un po’ di fatica. Ho impiegato tre ore e mezza».
Lei si è occupato anche del rifugio Tissi, che pure ha fatto riferimento alla vostra sezione. Quali ricordi ha?
«Abbiamo realizzato un acquedotto, attingendo l’acqua ai piedi di una parete del Civetta, opera che oggi sarebbe impossibile: finiremmo direttamente sotto processo se osassimo fare quello scavo. Ma non siamo pentiti, perché l’acqua è stata vitale per quello che è diventato uno dei più suggestivi rifugi delle Dolomiti. La teleferica che copre un dislivello di oltre mille metri, l’abbiamo rinnovata, ai nostri tempi, ben due volte. E allora non avevamo elicotteri a disposizione».
I rifugi alpini devono necessariamente essere accessibili soltanto a piedi?
«Sì, altrimenti non sono “alpini”. Certo, ci possono essere delle eccezioni, come lo è il rifugio Auronzo. Ma l’eccezione deve rimanere tale. Non si dimentichi che il Cai ha uno statuto, ormai storico, e che questo va rigorosamente rispettato».
Ciò significa che il rifugio alpino non potrà mai avere il comfort di un albergo?
«Esattamente. I nostri devono essere ambienti confortevoli, accoglienti anzitutto per l’umanità che l’escursionista o l’alpinista può, anzi deve trovare. Ma è evidente che il “cliente” non può pretendere un ristorante da chef o camere d’albergo, magari con l’idromassaggio. Il Bianchet, un altro dei nostri rifugi, è estremamente accogliente proprio per la sua “alpinità”, quindi per la sobrietà dell’accoglienza».
Lei è medico dentista e ha dato un grosso contributo alla medicina di montagna. Si è occupato anche del rifugio Crepaz sul Pordoi, che doveva diventare un laboratorio di questa branchia della medicina.
«Se mi permette, non vorrei parlarne. Si tratta di un momento di forte disagio con il Cai nazionale, perché all’epoca non si è dato seguito, nella misura dovuta, all’impegno che tanti di noi avevano riposto negli studi medici per consentire anche alle persone fragili di accedere alle quote più alte. Si pensi agli infartuati, ai cardiopatici, ai diabetici, ad altri malati ancora. I primi studi li avviammo proprio a Belluno, grazie alla collaborazione di un primario che era un pozzo di scienza e alle sue relazioni con studiosi dell’università di Padova; il tutto a seguito di problematiche mediche relative ad assideramenti e a congelamenti patiti da nostri soci in particolari eventi qui in provincia. Grazie a quegli studi, la medicina di montagna ha fatto passi da gigante; ci dispiace soltanto che il laboratorio del Pordoi, a pochi anni dall’ampliamento, sia stato venduto».
L’assemblea dei delegati che l’ha riconosciuta come socio onorario non ha invece scelto il feltrino Ennio De Simoi come vicepresidente nazionale del Cai. Le dispiace?
«Questo episodio apre degli interrogativi, ma lascio ad altri eventuali considerazioni. Mi permetto solo di aggiungere che lo statuto del Cai va rispettato in tutto e per tutto».
Condivide la vicinanza del Club alpino al mondo ambientalista?
«Noi non possiamo volere una montagna wilderness, cioè selvaggia, la montagna è da vivere. E questo è l’impegno storico anche del Cai. La sua azione è sempre stata rivolta contro lo spopolamento delle quote più alte. Non comprendo, pertanto, gli eccessi dell’ambientalismo. Ricordo il senatore Armando Da Roit, una vita da gestore di rifugio, quando disse, riguardo agli ambientalisti: noi, gente di montagna, sappiamo bene di che cosa la montagna ha bisogno per continuare a vivere, senza che venga a dircelo chi vive in città o in pianura».
Che cosa voleva dire, in sostanza, Da Roit, con quell’espressione?
«Se fosse ancora vivo, direbbe che il Comelico non può aspettare venti o trent’anni un impianto di risalita che è vitale per la sua sopravvivenza. Questo è solo un esempio».
Ritiene che il Cai faccia politica?
«So, per statuto, che il Cai è apartitico».
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