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«Sono movimenti imprevedibili La velocità? 40 metri al secondo»

Il geologo Luca Salti: «Il materiale si è sgretolato e non ha neanche raggiunto il bosco»

F.D.m.
2 minuti di lettura
Il costone interessato dal crollo ripreso dall’elicottero dei vigili del fuoco 

«Un crollo di roccia». Così Luca Salti, uno dei più noti e apprezzati geologi della provincia di Belluno, sulla massa precipitata dal Marcora. Quindi non è una frana? «No, non si tratta della solita frana. “Solita” come quelle cadute negli anni in direzione di Chiapuzza».

Oggi, con un’ulteriore ricognizione aerea, e magari senza le nuvole di copertura, si potrà meglio capire anche la volumetria. Ma – ipotizza Salti – si tratta senz’altro di un volume importante. «La cosa importante è che la grande massa di materiale in libera caduta si è sbriciolata, frantumata. Ecco perché è “esploso” il grande polverone che si è visto nei social. I materiali, essendosi sbriciolati, non sono rotolati a valle, ma si sono fermati in quota, non hanno raggiunto neppure il limite del bosco. Quindi», afferma Salti, «non rappresentano un pericolo».

I crolli caratterizzano da sempre le Dolomiti nelle loro forme spettacolari, quelle ad esempio delle guglie. «I crolli sono i movimenti (chiamiamoli pure franosi, per capirci) più imprevedibili. Possono verificarsi d’estate, d’inverno, col sole, con la pioggia. Si tratta di ammassi di roccia che, per motivi strutturali, cedono».

I crolli non sono soltanto i più imprevedibili, ma anche i movimenti più veloci. La velocità? «Anche 30, 40 metri al secondo. Tra tutti i movimenti in quota, e non solo, i crolli sono quelli che rappresentano il maggiore pericolo. Sulle Dolomiti ogni anno ci sono tra le 150 e le 200 frane di nuovo innesco, mentre i crolli veri e propri sono poco più della metà».

Mentre il crollo di ieri è del tutto nuovo, quindi fa storia a sé, sono storici i due colatoi di Croda Marcora che insistono, dall’alto, (molto in alto) sulla testa della località Chiapuzza. «I colatoi sono in verità delle frane. Più precisamente sono dei ghiaioni, con materiale sciolto, soggetti a colate detritiche, come vengono chiamate in gergo, movimentate dalle piogge», spiega Salti. «Si tratta, dunque, di due situazioni completamente diverse, ma collegate nello sviluppo morfologico delle nostre vallate».

Poco ci combina il permafrost. Si tratta infatti di distacchi di fronti di roccia che stanno, come si dice in gergo tecnico, in equilibrio limite e a un certo momento questo equilibrio si rompe e quindi si ha il collasso di porzioni più o meno grandi. Siamo infatti in presenza di pareti verticali esposte al sole, dove il permafrost è difficile che esista. «Se ci guardiamo intorno, dall’Antelao al Pelmo, dal Sorapis al Cristallo e finanche al Civetta, siamo in presenza di rocce con 1000, 2000 metri di altezza, e in certi punti - è fisiologico - si sfettano. Se vogliamo, è anche questa cultura della convivenza».

Per trovare il permafrost che si scongela, infatti, bisogna salire a 2800, meglio ancora a 2mila metri. La stazione dell'Arpav per monitorarlo è infatti a quest’altezza, sul Piz Boè. Certo è che in ogni caso - come sottolinea il geologo Salti - sono necessari puntuali interventi di protezione e di messa in sicurezza, come quelli di Borca o della stessa Chiapuzza. Con la consapevolezza che i crolli ci sono sempre stati. E sempre ci saranno.

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