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Gli ultimi paradisi dell'oceano incontaminato. Gli esperti: "Stanno scomparendo"

Ormai solo il 13% dei mari non è segnato dalle attività umane, fatta eccezione per la Polinesia, vicino alle coste restano poche aree incontaminate al largo di Cile, Australa e Nuova Zelanda. Le aree protette non bastano e, se si calcolano gli effetti del climate change, le oasi spariranno

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L'isola di Wellesley(Australia)@Nicolas Raymond/Flickr
L'isola di Wellesley(Australia)
@Nicolas Raymond/Flickr

 
I PARADISI incontaminati del mare, quelle zone dell'oceano dove squali e tartarughe, cetacei, spugne e barriere coralline possono prosperare, sono ormai oasi sempre più isolate perse in un ecosistema dominato dalle attività umane. Le aree dove l'uomo non ha ancora lasciato il segno vicino alle coste continentali sono ridotte a poche zone al largo di Cile, Nuova Zelanda e Australia. Sembra che nemmeno le Galapagos siano state risparmiate. Per trovare la natura selvaggia bisogna spingersi in alto mare, nel mezzo del Pacifico o tra i ghiacci antartici. Fatta eccezione per il Polo Nord, nell'Atlantico settentrionale non esiste angolo di oceano non 'marcato' dall'uomo.
La mappa dei luoghi che si possono definire ancora "selvaggi", di tutti i mari della Terra, è stata tracciata da un team di ricercatori coordinati da Kendall Jones, della Wildlife Conservation Society. Da questa visione è scattato l'allarme. Solo il 13 per cento di tutti gli oceani sono incontaminati: "Bisogna fare qualcosa" perché sono le zone in cui ancora la biodiversità può essere preservata e deve essere tutelata.

·L'IMPATTO DELL'UOMO 
Gli scienziati hanno analizzato dati satellitari, dalle imbarcazioni e dai rapporti dei singoli Stati, ove disponibili, comprese le rotte delle imbarcazioni. E hanno individuato 15 fattori di stress dovuto alle attività umane (pesca, rotte commerciali, inquinamento anche luminoso e fattori legati ai cambiamenti climatici). Tra questi spicca proprio la pesca, una delle attività più invasive nei mari di tutto il mondo. Per lo sfruttamento eccessivo ma anche per la dispersione di microplastiche.

Le aree che ancora conservano la patente di "selvagge" sono quelle in cui l'impatto di questi fattori non supera il 10%. E per trovarle bisogna raggiungere le zone più remote, le più lontane dalle coste. Nel Pacifico centrale soprattutto e in una piccola e discontinua area dell'Atlantico meridionale. Questo al netto dei cambiamenti climatici. Inserendo anche queste variabili, la scomparsa dei luoghi "vergini" è già avvenuta: "Poiché l'impatto dei cambiamenti climatici è diffuso e incontrollabile su scala globale - scrivono i ricercatori nello studio pubblicato su Current Biology - includendo le variabili climatiche non risulterebbe più alcuna zona selvaggia". Le variabili del climate change dunque sono state escluse dall'analisi dei singoli fattori ma valutate nel computo complessivo dell'impatto sui mari.

Vicino alle coste la situazione è, come si può immaginare, la più compromessa. Soprattutto per lo sfruttamento delle risorse ittiche all'interno delle Exclusive economic zones (Eez). La pesca in primo luogo e le tratte delle navi commerciali. Per non parlare dell'inquinamento delle plastiche, ormai diventato una piaga di dimensioni planetarie.

Fanno eccezione la Polinesia e alcune aree, specificate nello studio, lungo le coste del Sudamerica. In particolare al largo di Cile (120.000 chilometri quadrati, il 6% della sua Eez) e Argentina, Nuova Zelanda (1,1 milioni di chilometri quadrati, bel il 25% della zona di sfruttamento) e Australia (4,3% per 350.000 chilometri quadrati), soprattutto per la scarsa popolazione e, in alcuni casi, dove il ghiaccio marino impedisce l'accesso alla costa.

·LA BIODIVERSITÀ
Gli scienziati hanno anche stimato che, rispetto a dove si fa più sentire l'influenza umana, le zone "selvagge" mantengono una ricchezza di specie più alta del 31%, il 41% in più di specie rare con punte del 200% alle isole Solomon.

Un ruolo fondamentale dovrebbero giocarlo le riserve marine, dove il passaggio dell'uomo è proibito e la biodiversità tutelata. Tuttavia appena il 4,9 per cento delle zone incontaminate si trovano all'interno delle aree protette. E anche quando avviene, non è garanzia di successo. Basti pensare alle Galapagos: nemmeno le acque attorno alle isole di Darwin, a quanto si evince dalla mappa, sono state risparmiate. O alle barriere coralline (quella australiana in particolare), zone vicino alla costa senza possibilità di scampare ai danni prodotti dall'uomo. A cominciare dai cambiamenti climatici: il riscaldamento globale sta sbiancando e uccidendo gran parte di questo ecosistema che supporta la più vasta biodiversità.

"Il progresso nella tecnologia della navigazione significa che anche le aree più remote sono a rischio nel futuro - ha sottolineato Jones - inclusi i luoghi una volta coperti dai ghiacci che ora sono accessibili a causa dei cambiamenti climatici". Il Polo Nord, per esempio, ora rischia grosso a causa del global warming. Qui il paesaggio sta cambiando. Lo scioglimento di grandi aree di ghiaccio marino, in corso da oltre un decennio, sta liberando nuove rotte, come il Passaggio a Nordovest. Lo sfruttamento economico e turistico di questa tratta ormai sembra essere all'orizzonte.
Per tutti questi motivi, i ricercatori sottolineano l'esigenza di agire subito, per tutelare le ultime oasi naturali degli oceani e la loro biodiversità. Tra gli interventi proposti, oltre alla (ovvia) azione per contrastare il riscaldamento globale, leggi per prevenire lo sfruttamento eccessivo della pesca e le tecniche distruttive e contrastare la pesca di frodo (che viene stimata tra il10 e il 30 per cento dell'intera attività), ridurre al minimo le piattaforme di estrazione che alterano gli habitat. E considerare queste zone ancora intatte come rifugi climatici soprattutto per le specie in via di estinzione.