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Mare "selvaggio": ecco le oasi che rischiano di scomparire
I paradisi di mare sono sempre meno, secondo uno studio pubblicato su Current Biology, appena il 13% degli oceani può essere definito "selvaggio", cioè dove ancora le attività umane non hanno lasciato una impronta sensibile sull'ecosistema. La maggioranza di queste zone si trova in alto mare, con alcune eccezioni. Da piccole oasi nel Mar Rosso alle Falkland fino alla Nuova Zelanda. L'ARTICOLO
·L'IMPATTO DELL'UOMO
Gli scienziati hanno analizzato dati satellitari, dalle imbarcazioni e dai rapporti dei singoli Stati, ove disponibili, comprese le rotte delle imbarcazioni. E hanno individuato 15 fattori di stress dovuto alle attività umane (pesca, rotte commerciali, inquinamento anche luminoso e fattori legati ai cambiamenti climatici). Tra questi spicca proprio la pesca, una delle attività più invasive nei mari di tutto il mondo. Per lo sfruttamento eccessivo ma anche per la dispersione di microplastiche.
Le aree che ancora conservano la patente di "selvagge" sono quelle in cui l'impatto di questi fattori non supera il 10%. E per trovarle bisogna raggiungere le zone più remote, le più lontane dalle coste. Nel Pacifico centrale soprattutto e in una piccola e discontinua area dell'Atlantico meridionale. Questo al netto dei cambiamenti climatici. Inserendo anche queste variabili, la scomparsa dei luoghi "vergini" è già avvenuta: "Poiché l'impatto dei cambiamenti climatici è diffuso e incontrollabile su scala globale - scrivono i ricercatori nello studio pubblicato su Current Biology - includendo le variabili climatiche non risulterebbe più alcuna zona selvaggia". Le variabili del climate change dunque sono state escluse dall'analisi dei singoli fattori ma valutate nel computo complessivo dell'impatto sui mari.
Vicino alle coste la situazione è, come si può immaginare, la più compromessa. Soprattutto per lo sfruttamento delle risorse ittiche all'interno delle Exclusive economic zones (Eez). La pesca in primo luogo e le tratte delle navi commerciali. Per non parlare dell'inquinamento delle plastiche, ormai diventato una piaga di dimensioni planetarie.
Fanno eccezione la Polinesia e alcune aree, specificate nello studio, lungo le coste del Sudamerica. In particolare al largo di Cile (120.000 chilometri quadrati, il 6% della sua Eez) e Argentina, Nuova Zelanda (1,1 milioni di chilometri quadrati, bel il 25% della zona di sfruttamento) e Australia (4,3% per 350.000 chilometri quadrati), soprattutto per la scarsa popolazione e, in alcuni casi, dove il ghiaccio marino impedisce l'accesso alla costa.
·LA BIODIVERSITÀ
Gli scienziati hanno anche stimato che, rispetto a dove si fa più sentire l'influenza umana, le zone "selvagge" mantengono una ricchezza di specie più alta del 31%, il 41% in più di specie rare con punte del 200% alle isole Solomon.
Un ruolo fondamentale dovrebbero giocarlo le riserve marine, dove il passaggio dell'uomo è proibito e la biodiversità tutelata. Tuttavia appena il 4,9 per cento delle zone incontaminate si trovano all'interno delle aree protette. E anche quando avviene, non è garanzia di successo. Basti pensare alle Galapagos: nemmeno le acque attorno alle isole di Darwin, a quanto si evince dalla mappa, sono state risparmiate. O alle barriere coralline (quella australiana in particolare), zone vicino alla costa senza possibilità di scampare ai danni prodotti dall'uomo. A cominciare dai cambiamenti climatici: il riscaldamento globale sta sbiancando e uccidendo gran parte di questo ecosistema che supporta la più vasta biodiversità.
"Il progresso nella tecnologia della navigazione significa che anche le aree più remote sono a rischio nel futuro - ha sottolineato Jones - inclusi i luoghi una volta coperti dai ghiacci che ora sono accessibili a causa dei cambiamenti climatici". Il Polo Nord, per esempio, ora rischia grosso a causa del global warming. Qui il paesaggio sta cambiando. Lo scioglimento di grandi aree di ghiaccio marino, in corso da oltre un decennio, sta liberando nuove rotte, come il Passaggio a Nordovest. Lo sfruttamento economico e turistico di questa tratta ormai sembra essere all'orizzonte.
Artico, si riapre il passaggio a nord ovest: la 'scorciatoia' polare
Il "Passaggio a nord ovest" è stato per secoli una specie di leggenda o, per i navigatori, un sogno che sembrava irrealizzabile: passare dall'Atlantico al Pacifico o viceversa risparmiando migliaia di chilometri di tragitto evitando il canale di Panama. È stato così fino a pochi decenni fa quando, complice il riscaldamento globale e lo scioglimento dei ghiacci, i varchi a nord del Canada hanno cominciato progressivamente ad aprirsi e con margini sempre più ampi. Due i passaggi: quello meridionale, che corrisponde alla rotta seguita da Roald Amundsen, nella spedizione nella zona agli inizi del '900, è rimasto aperto - secondo le immagini fornite dai satelliti in orbita - per diverse settimane durante l'estate 2015. Quello più a nord, più adatto alle grandi navi, passa attraverso lo stretto di Lancaster, il canale di Parry e lo stretto di McClure. Anche questo tratto mostra, in queste settimane, di non essere completamente ghiacciato e quindi, con tutta probabilità, navigabile. Negli ultimi anni i transiti attraverso questi due passaggi sono sempre più frequenti perché il ritiro dei ghiacci e il minimo annuale di copertura (che cade in questi giorni) lo permettono. Nel 2012, l'anno in cui il minimo annuale ha raggiunto la superficie più bassa mai registrato, le autorità canadesi hanno quantificato in 30 attraversamenti il traffico in questo settore. La navigazione in queste acque non è infatti ancora totalmente sicura e gli iceberg rappresentano un serio pericolo