Paolo Bruschi ama sporcarsi le mani. Ha lavorato alle relazioni esterne in Omnitel e in Fininvest, per la regione Emilia Romagna, come vice direttore generale del gruppo Poste Italiane. Senza mai dimenticare l’impegno civico ricoprendo il ruolo di dirigente Arci, a supporto delle lotte anti-apartheid (era con Mandela sul palco a Roma nel 1990), per sostenere l’Armenia dopo il tragico terremoto del 1988. Ora però ha deciso di sporcarsele davvero: fango sotto le unghie, aria aperta, senza però tralasciare l’aspetto creativo e manageriale. "Ho cercato un’attività che mettesse insieme ambiente ed economia. L’ho trovata nell’agricoltura sostenibile e nel bambù", racconta Bruschi in collegamento su Zoom. "La vena ambientale era presente fin da ragazzo, così ho deciso che era giunto il momento di metterla in pratica".

Che cosa l’ha spinta a prendere questa decisione?
"La mia famiglia. Volevo lasciare qualcosa di concreto, come un bosco, una doppia eredita per i nostri figli ma un piccolo contributo anche per le generazioni future. E piantando bambù, entro cinque anni, avrò creato un bosco di 180.000 piante alle porte della città".
Come mai piantare bambù e non alberi?
"Il bambù vive fino cento anni. Coniuga bene beneficio economico, sicurezza alimentare – i germogli sono un alimento straordinario e buonissimo – e sosteniblità ambientale. Cattura CO2, non ha bisogno di prodotti chimici per la sua coltura ed ha tempi di crescita rapidi".
Cosa ha piantato nei suoi campi?
"Al momento ci sono tre ettari e mezzo di bambù piantati alle porte di Ferrara. La principale tipologia è il moso, il bambù gigante, molto resistente, con una capacità di crescere tra i 13 e 18 metri in circa cinque anni. La seconda tipologia è il dulcis, una tipologia adatta per i germogli ad uso alimentare. Inoltre abbiamo tenuto mezz'ettaro libero per dare spazio alla biodiversità e vedere come interagisce con il bambuseto circostante. In autunno poi pianteremo quattro ettari di madake, una tipologia più legnosa adatta per le costruzioni. In questo spazio libereremo qualche centinaio di galline e anatre per usarle per controllare erbacce e insetti. Avremo poi anche l'apicoltura. L'idea è una coltivazione davvero integrata, il mio vero pallino".
Quali prospettive ci sono in Europa?
"L’Italia è posizionata benissimo in termini di clima, come la Francia meridionale. Idealmente le zone migliori per coltivarlo sono le aree centro-settentrionali poiché il bambù richiede quantità d'acqua importanti. Ma se gestito in maniere intelligente dal punto di vista idrico può crescere anche al Sud. La pianta sopravvive fino a -18°C".
Come lo commercializzerete?
"Le filiere sono ancora deboli, si muovono lentamente. Spero che cresca la passione intorno a questo materiale e presto di vedere nascere una filiera italiana robusta".
Come mai ancora non decolla?
"Non capiamo a pieno il valore ambientale di questo prodotto, che in Asia ha una filiera enorme. L’Emilia Romagna vuole piantare 4,5 milioni di alberi. Cosa succederebbe se piantassimo sulla stessa superficie altrettanto bambù? In un ettaro possiamo avere ben 30 mila piante di bambù, che al sesto anno possono essere tagliati e divenire produttivi. Intanto il bambù continua a ricrescere. Quindi se avessimo mille ettari, lo 0,07 della superficie agricola emiliana, potremmo avere 30 milioni di piante che producono ossigeno anche d’inverno quando in pianura padana abbiamo lo smog alle stelle. Per questo credo che anche il pubblico abbia un ruolo importante per incentivare i bambuseti. Oltre la riforestazione bisogna sostenere questa coltura".
Attualmente ci sono poche ricerche in Europa sul bambù, con le quali si potrebbe sostanziare meglio l’importanza del materiale.
"Ha sicuramente ragione. Anche in questo caso servirebbe maggior supporto al mondo agricolo e meno tiepidezza dalle associazioni di settore ancora troppo legate all’agricoltura tradizionale. Solo così possiamo davvero spingere per ampliare la coltivazione del bambù".
In passato si è speculato sul bambù promettendo ricchi ritorni sugli investimenti, con false promesse su tempi di crescita mirabolanti, millantando uno sforzo zero per la sua coltivazione.
"Negli anni scorsi si sono commessi errori enormi. Si prometteva una crescita naturale senza controllo. Investire in bambù come strategia per arricchirsi rapidamente. Invece è una coltura che richiede conoscenza e esperienza. Un tam tam mediatico che ha creato diffidenza nel mondo agricolo. Ora è tempo di riconquistare la fiducia facendo le cose seriamente".