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La democrazia della pizza

Oggetto del desiderio di milioni di curiosi e appassionati, non ha mai smesso di evolversi, dalla cucina povera alle tavole più esclusive. Figlia di mamma Napoli, a suo agio nel tocco romano e nelle più diverse interpretazioni, per sua natura è libera. Da Briatore a Cracco a Sorbillo, tra polemiche e scuole di pensiero, sa sempre sorprendere. E oggi si va verso un’ulteriore espansione del settore 
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Sostantivo femminile [voce già presente nel lat. mediev., forse der. da un ant. alto-ted. bizzo, pizzo «boccone, pezzo di pane, focaccia», diffusa in epoca recente attraverso il napoletano]. – 1. Preparazione culinaria, a base di farina di grano (o anche di granturco, castagne, ecc.), impastata con acqua o latte, lievito, uova, e olio o sugna o burro, con l’aggiunta di ingredienti varî e cotta in forno, generalm. in forme rotonde e basse: p. dolce, salata; p. pasquale (o di Pasqua); p. rustica…”, recita il Dizionario Enciclopedico della Treccani, che per sua natura concisa ed elegante spiega magistralmente ogni singola parola della nostra Lingua. Così nasce nei secoli la Pizza, così arriva ai nostri giorni, oggetto del desiderio di milioni di affamati, curiosi o appassionati, così si evolve costantemente nel tempo, manipolata con una cura tale da spingere l’Unesco – l’organizzazione dell’Onu per la Cultura - a riconoscere l’Arte del pizzaiolo napoletano come Patrimonio dell’Umanità.

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Potremmo accontentarci di cotanto titolo per raccontare la vita della nostra fedele compagna di viaggio, incontrata da piccoli per un pranzo in famiglia, scoperta da adolescenti magari bevendoci sopra una birretta (un Peroncino?), e coltivata fino in tarda età attratti da vizi e virtù. Vizi come l’assuefazione e il richiamo a tenere la pancia sotto controllo; virtù, dato che abbiamo la fortuna di appartenere a quella generazione di Italiani che assiste da protagonista felice ad una crescita e trasformazione sorprendente. Quando scopriamo che gli ingredienti essenziali ad assaporare tanto gioiosamente quanto in maniera sana, come la farina, il lievito, la mozzarella, il pomodoro, si rivelano grazie agli sforzi dei produttori – e di chi li controlla, pubblico e stampa – sempre migliori. A differenza del vino del contadino, che velenoso era e velenoso è rimasto, ogni singolo protagonista ci racconta – nel palato - la storia dell’evoluzione. 

 

Così, com’era accaduto con i cibi dei poveri – il farro e la castagna per citarne un paio cari a noi tutti – la pizza diventa il vessillo di una rivoluzione pacifica - una rivoluzione che non è uno dei mille moti di piazza nati del Sud del mondo e più o meno rapidamente annegati nel sangue o affidati all’oblio – che parte dalla cucina povera, dove ci si affolla per riempire lo stomaco, per arrivare alle tavole più esclusive, dove il  pizzajuolo occupa una scena che mai si sarebbe aspettato. Anche nei locali più poveri è evidente l’attenzione all’origine dei grani, persino alla legna da ardere, selezionati proprio per finire nella bocca del forno e in una manciata di secondi fare il miracolo, trasformare quel disco magico, colorato e insaporito da pomodoro e mozzarella. Fino ad arrivare a giocare e proporre una serie infinita di condimenti e topping. Insomma, una ribellione della pizza contro i suoi stessi stereotipi, contro i vincoli che la tenevano legata ad una storia reazionaria più che conservatrice, ancorata ad una tradizione pigra, perfetta e comoda per giustificare un sostanziale immobilismo. Un po’ come le vecchie star che si rifiutano di fare i conti con il tempo che vola e si rifiutano di adeguarsi finendo in un angolo: “Video killed the Radio Star”…(The Buggles). Invece, un manipolo di giovani di successo, tutti figli della stessa terra, e legati sì alla storia senza esserne schiavi, ha deciso di fare il grande salto: la capitale è Napoli e napoletano resta il modello di pizza, anche se le si affianca con successo il trancio di scuola romana.

 

 

E oggi? Probabilmente si va verso un’ulteriore espansione del settore. Spingono in questa direzione il cambiamento negli stili di vita, ovvero la necessità di pranzi veloci ed economici per i quali lo street food resta un modello ideale, e la necessità di spendere meno. Certo la crisi innescata dalla guerra provocata dall’invasione russa dell’Ucraina sembra destinata a indebolire le trattorie e i ristoranti della fascia media, riflesso immediato dei colpi incassati dalla piccola e media borghesia, mentre si profila un modello di pizzeria che offra più servizi: non solo tanti tipi di pizza, ma anche fritture più leggere, carta dei vini e delle birre, in alcuni casi – nel fine settimana – persino l’animazione per intrattenere i bambini. Iniziative che si trovano ovviamente a fare i conti con gli aumenti legati al conflitto ucraino: dalla Manitoba, aumentata del 50 per cento, alla mozzarella aumentata del 30 per cento. Locale diventa bello, e gli imprenditori stentano a trovare il personale necessario a rispondere ad una domanda crescente da parte degli abitanti della zona e dei turisti, una domanda vitale per l’economia, in controtendenza rispetto all’insieme dell’enogastronomia. Anche qui dobbiamo distinguere le diverse velocità alle quali si muove il Paese: a considerare la vitalità del Nord, tra Piemonte e le Venezie, le difficoltà sembrano sparire a confronto con quelle che investono lo Stivale da Roma in giù.

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Ma in Pizza We Trust! Lo dimostrano le tante scuole di pensiero e le esperienze che attraversano il Bel Paese, regolarmente accompagnate da polemiche che esulano dal mondo dei gastrofichetti fino ad investire televisioni e organi di stampa: dal disco senza lieviti di Flavio Briatore nel Crazy Pizza che a Via Veneto propone l’accompagnamento di Pata Negra a 65 euro, alla Margherita di Cracco in galleria, fino alla classica Napoletana di Gino Sorbillo ai Tribunali. Senza dimenticare l’attaccamento al prodotto e al servizio nostrano, come dimostra il tentativo fallito dell’americana Domino’s, che dopo sette anni ha dovuto rinunciare allo sbarco in Italia avendo accumulato un debito di oltre sei milioni di euro. Che cento pizze sboccino, che cento pizzerie rivaleggino, si potrebbe esclamare parafrasando il presidente Mao quando nel 1956 lanciò la “campagna dei cento fiori”, una stagione di liberalizzazione della vita culturale, economica e politica della Repubblica Popolare cinese. Come sempre nei paesi comunisti, finì male. Da noi, per fortuna, questo pericolo non lo corriamo. La pizza per sua natura è libera e democratica!