Le ridono gli occhi quando ti parla, e il suo entusiasmo è contagioso. Il telefono continua a squillare, perché i problemi sono infiniti, non ultimo il ritardo dell’arrivo dei materiali per allestire gli stand causa caos internazionale dei trasporti e guerra in Ucraina. Maria Porro, presidente del Salone del Mobile di Milano (dal 7 al 12 giugno alla Fiera di Rho) non si scoraggia. Come molte donne sa come gestire contemporaneamente tre figli piccoli, il suo ruolo di direttore marketing nell’azienda di famiglia (che compie cent’anni nel 2025) e i mille intoppi organizzativi di un’edizione speciale. Speciale perché arriva dopo due anni di stop (il Supersalone dello scorso anno è stato per forza di cose in tono minore) e poi perché si festeggia il 60° compleanno, un traguardo importante che ribadisce il ruolo centrale dell’appuntamento milanese rispetto a tutti quelli che sono successivamente nati nel mondo. «Con oltre 1.400 espositori, più i 600 del Salone Satellite, possiamo già dirci soddisfatti» dice Porro «anche perché il 25% arriva dall’estero e questo è un grande traguardo, che ribadisce il ruolo internazionale di Milano».

Come dicono gli investigatori, “seguiamo i soldi”. Nell’ultimo anno il settore arredamento italiano ha portato a casa un +11%, per un totale di 26 miliardi di fatturato, e l’export è cresciuto del 9,4%. Quindi il Salone non serve?
«Questi numeri sono l’effetto di due anni di persone chiuse in casa e della voglia di rinnovare completamente l’arredamento. Ma questa nuova passione per la casa va alimentata con prodotti di qualità, quelli che si vedono, si toccano e si capiscono al Salone. Abbiamo davanti un’incredibile opportunità e dobbiamo rispondere con un’offerta all’altezza dei bisogni. Senza il Salone, che è il motore di tutto, si può planare per qualche tempo però poi si precipita. È il campo in cui le aziende si sfidano per presentare le loro proposte migliori».
La concorrenza è spietata. Troppa, per qualcuno?
«È concorrenza buona, quella che ogni anno in azienda ci porta a dire: “Devo fare meglio degli altri”. Il Salone dà al settore la possibilità di mettersi in gioco con regole che rispondono solo alla meritocrazia».
La guerra e la chiusura del ricchissimo mercato russo vi fa paura?
«I veri effetti del conflitto ancora non si sono visti: nel primo trimestre dell’anno, paradossalmente, c’è stato un aumento di richieste da parte del mercato russo perché c’era incertezza e la volontà di accelerare con gli ordini. Sul secondo semestre sentiremo invece gli effetti negativi della guerra, mentre quelli dell’aumento delle materie prime e dell’energia sono già arrivati. Queste sfide non si affrontano con la paura, ma con la consapevolezza, l’analisi e tirandosi su le maniche. Uno dei grandi sforzi che sta facendo il Salone del mobile è proprio di cercare altri mercati, facendo arrivare a Milano i nuovi interlocutori».
Quali sono i mercati su cui puntate?
«America e Cina, nonostante i lockdown, stanno andando benissimo. Ma i Paesi più interessanti nel prossimo futuro sono gli Emirati Arabi e l’Arabia Saudita perché, oltre al grande afflusso di capitali, stanno vivendo un diverso approccio culturale verso la cultura occidentale. La grande voglia di design e arredo made in Italy è anche il risultato della spinta urbanistica e della costruzione di nuove città. E poi c’è l’India e il Sud-Est asiatico. In una geografia così complessa, il nodo dei trasporti ci preoccupa molto».
Al centro del Salone 2022 c’è il tema della sostenibilità, ma già da anni le aziende italiane usano legni certificati e stanno riducendo sensibilmente l’uso della plastica. Cosa c’è quindi di nuovo?
«L’accelerazione degli ultimi cinque anni, anche grazie alla spinta dei movimenti, è stata impressionante. I consumatori americani e cinesi se decidono di importare un prodotto italiano vogliono essere sicuri che abbia un valore aggiunto che non è più soltanto quello della bellezza e della durevolezza ma anche quello della sostenibilità. Il settore è avanti ma in maniera un po’ disomogenea».
Faccia un esempio.
«Io come azienda sono certificata Fsc, ovvero offro la garanzia che i legni usati non hanno causato deforestazione, e lo è anche il mio fornitore, ma magari non lo è l’artigiano con le mani d’oro che realizza il bracciolo della mia poltrona. Quindi il prodotto finale, evidentemente sostenibile, non può avere il marchio. Il passo avanti è armonizzare la filiera. Inoltre sostenibilità non significa solo non aver distrutto la foresta amazzonica ma anche aver utilizzato vernici atossiche e aver creato un ambiente di lavoro salubre e alti standard di garanzie per gli operai. E qui vorrei aprire una parentesi».
Prego.
«Quando si parla di lavoratori dell’arredo, molti pensano ancora a mastro Geppetto e scelgono altre strade. In questo modo molte capacità artigianali che avevamo sono andate perdute. Per recuperarle un primo passo potrebbe essere l’istituzione di una scuola superiore con specializzazione in perito dell’arredamento. Sono in atto delle sperimentazioni, vedremo cosa si riuscirà a fare. Oggi nelle aziende l’artigiano che lavora a mano il legno e il ventenne che fa funzionare le macchine a controllo numerico operano fianco a fianco. Saper fare manuale e alta tecnologia se sapientemente integrati generano prodotti unici al mondo».

Oltre all’istallazione di Mario Cucinella sull’architettura sostenibile, in Fiera ci sarà una “materioteca”. Cos’è?
«Se portata avanti dalle singole aziende, la sperimentazione di materiali eco richiede investimenti molto alti che non tutti possono permettersi. Abbiamo quindi chiesto a Cucinella di mostrare a designer, industriali e buyer i risultati già disponibili: l’uso del micelio per pannelli fonoassorbenti e pelle, tessuti ottenuti dalle bucce di arancia e le tante finiture parietali per l’architettura ottenute dagli scarti della coltivazione del riso».
La durabilità è il primo principio della sostenibilità. Non è contraria alla logica del Salone che dovrebbe spingere a consumare sempre di più?
«Le aziende che espongono al Salone, per l’alta qualità estetica e dei materiali, non si rivolgono a un consumatore che compra e butta. Chi cerca prodotti di bassa qualità usa-e-getta va da un’altra parte. È il basso costo a incentivare il consumismo sfrenato e a produrre quantità immense di rifiuti».
Le pesa la defezione di qualche grande marchio?
«La Design Week negli showroom la puoi fare ovunque e in qualunque periodo dell’anno, invece la temporaneità del Salone ha un valore fortissimo, o ci sei o non lo vedrai più. Detto questo, il fatto che alcuni brand non siano in Fiera è un peccato perché ogni azienda porta un valore aggiunto, i contenuti veri del Salone».
Nel suo campo il gender gap si sta assottigliando?
«Uno dei punti del decalogo di Federlegno è la parità economica uomo-donna. Il cambio generazionale nelle aziende di famiglia sta vedendo però il coinvolgimento in ruoli dirigenziali di molte giovani donne estremamente preparate. Insomma, ci siamo quasi».


