Brigitte Lacombe ha una risata roca che attraversa l’oceano, e scroscia giù attraverso la connessione un po’ precaria che ci unisce, a quasi 7.000 chilometri di distanza l’una dall’altra.
In collegamento con il suo studio di New York, è di questo che parliamo tutto il tempo: di connessioni tra esseri umani. Quelle che permettono alle persone di comunicare e quelle che permettono a lei, da oltre cinquant’anni, di creare i ritratti straordinariamente autentici, disarmati e disarmanti per cui è celebre. «Un ritratto è un incontro tra due individui, che collaborano per realizzare un’immagine», racconta. E lei, che ha fotografato Joan Didion, Patti Smith, Maya Angelou, Louise Bourgeois e Martin Scorsese tra tantissimi altri, sa di cosa parla.

Le sue immagini saranno in mostra nella collettiva Face to Face. Portraits of Artists by Tacita Dean, Brigitte Lacombe and Catherine Opie, curata da Helen Molesworth all’Icp di New York, dal 27 gennaio al 1° maggio 2023: oltre 50 scatti di Lacombe e Opie e due film di Dean, che ritraggono alcune delle più influenti personalità che hanno attraversato il mondo dell’arte tra XX e XXI secolo. Una mostra che è un’opportunità per riflettere sul ritratto come genere fotografico e come testimonianza in grado di fermare il tempo in un’epoca di rincorsa tecnologica e di inflazione iconografica, ma anche di ripercorrere la carriera incredibile di Lacombe: una donna che, dai primi passi mossi a 17 anni con al collo una Nikon F regalatale dal padre, ha fatto della fotografia una scelta di vita.
Ha fotografato chiunque: attori, artisti, politici. Che cosa deve avere un soggetto per suscitare in lei il desiderio di ritrarlo?
«Ci sono ancora tantissime persone straordinarie nel mondo dell’attivismo, dell’arte, dell’artigianato che mi piacerebbe fotografare: il mio interesse nasce soprattutto da ciò che una persona fa, piuttosto che da come si presenta. L’aspetto esteriore è una parte molto rilevante in un ritratto, ma non è mai la bellezza a orientare il mio desiderio».
C’è qualcuno, invece, che rimpiange di non aver fotografato?
«Cerco di non soffermarmi mai sui rimpianti, ma se proprio devo pensare a qualcuno mi viene in mente Steve Jobs. Mi sarebbe piaciuto molto fotografarlo, ma non siamo riusciti a far combaciare i nostri impegni, e poi è stato troppo tardi».
Spesso, quando ritrae un soggetto, lo incontra sul set per la prima volta. Come fa a creare una connessione?
«In studio ho il pieno controllo di ogni dettaglio, quini preparo accuratamente il set e poi mi concentro esclusivamente sul soggetto, ma anche quando ritraggo le persone nel loro spazio cerco di creare un’intimità, un’atmosfera calma e silenziosa. Una volta che c’è questo, ho fiducia nel fatto che riuscirò a connettermi con chi ho di fronte, che ci incontreremo a metà strada, perché in fondo è di questo che si tratta: dell’incontro tra due persone, con una macchina fotografica in mezzo».
Cosa ha il ritratto “giusto”?
«Cerco quel momento di autenticità che si crea quando qualcuno ti lascia veramente entrare e, allo stesso tempo, si rivela ai tuoi occhi nella sua luce migliore. Non saprei definirlo meglio, ma quando guardi una persona intensamente impari a riconoscere quell’istante di verità che ti regala».

Come è cambiato il senso della fotografia di ritratto nell’era di Instagram, quando quasi tutti costruiscono e condividono una narrativa intima di se stessi?
«Una mostra come Face to Face per me è un segno che questo genere fotografico ha ancora ragione di esistere, anzi, forse ne ha più che mai, in un mondo in cui chiunque ritrae continuamente se stesso e condivide ossessivamente la propria immagine sui social. Quello che viene postato, però, ha un significato completamente diverso rispetto al ritratto, perché esiste in una dimensione assolutamente estemporanea. Un ritratto è qualcosa che resta, a cui tornare anche dopo moltissimi anni, per rintracciare una testimonianza visiva di un individuo, per come il fotografo l’ha interpretato. La maggioranza delle milioni di immagini che produciamo ogni giorno, invece, non sopravviverà al tempo».
Fin dagli inizi ha portato avanti due strade parallele: il ritratto e i reportage dai set cinematografici. Cosa le interessa di questo contesto così lontano dal suo studio intimo?
«Mi è sempre piaciuto il contrasto tra il totale controllo che esercito nel ritratto in studio e la perdita totale di controllo sul set, muovendomi in una situazione che esiste a prescindere da me, di cui devo essere una testimone silenziosa: lo trovo liberatorio. Nella mostra all’Icp abbiamo deciso di esporre solo le immagini che ho realizzato sul set con Martin Scorsese e Leonardo DiCaprio, frutto di due collaborazioni straordinarie. È da 25 anni che lavoro con Scorsese su tutti i suoi progetti: con lui ho conquistato il privilegio dell’intimità, perché sono l’unica fotografa ammessa sui set, sono parte del team».
Ha cominciato la sua carriera negli anni 60, giovane donna in un mondo di uomini. Che consiglio darebbe oggi a una fotografa?
«All’epoca, essere una giovane donna in un contesto maschile è stato in un certo senso un vantaggio: mi ha permesso di farmi notare. Oggi ci sono tantissime fotografe, ma è un mondo più competitivo. L’unica cosa che mi sento di dire loro è di essere ambiziose, concentrate e flessibili. Molte hanno una famiglia, delle relazioni: per me, invece, la fotografia è sempre stata tutta la mia vita. Non dico che debba essere lo stesso per tutti, ma bisogna avere grande determinazione per intraprendere questa carriera, perché solo così si può riuscire».