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Kalpona Akter, ha fondato e presiede il Bangladesh Center for Workers Solidarity. Foto di Melina Mara/The Washington Post/Getty
Kalpona Akter, ha fondato e presiede il Bangladesh Center for Workers Solidarity. Foto di Melina Mara/The Washington Post/Getty 
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Kalpona Akter: "Dedico la mia vita a migliorare le condizioni di lavoro delle operaie"

Esattamente dieci anni fa, il 24 aprile 2013, il crollo del Rana Plaza in Bangladesh uccise 1.134 persone. Kalpona Akter, che ha iniziato a lavorare come operaia tessila a 12 anni, da quel giorno ha avuto uno scopo: la sua vita è dedicata a migliorare le condizioni di lavoro degli operai, in particolare donne

3 minuti di lettura

Il 24 aprile di dieci anni fa a Dacca, in Bangladesh, crollava il Rana Plaza, una fabbrica di indumenti di 8 piani. In meno di 90 secondi uccise 1.134 persone. Una strage annunciata, che mise in evidenza le condizioni di lavoro nell’industria e la mancanza di sicurezza di operai pagati 30 euro al mese per produrre abiti di svariati brand internazionali. “Un omicidio”, lo definì Kalpona Akter, fondatrice e direttrice del Bangladesh Centre for Workers’ Solidarity (Bcws). Lei ha iniziato a lavorare quando era ancora una bambina, a 14 anni ha cominciato a interessarsi ai diritti dei lavoratori e ha capito che esiste un orario, un intervallo per il pranzo, che le donne non devono essere abusate ed esiste il diritto di organizzarsi. La sua vita è dedicata a migliorare le condizioni di lavoro degli operai, in particolare donne.

Signora Akter, cosa è cambiato da allora? 
«C’è stato un mutamento fenomenale nella sicurezza. Due milioni di lavoratori sono impiegati in 1.300 fabbriche sicure grazie all’Accord on Bangladesh Fire and Building Safety. Ma ci sono molte aree che devono ancora migliorare: i salari, i diritti sindacali, la violenza di genere e il lavoro minorile. Prendiamo il salario: ora quello minimo è di 80 euro al mese, ma è una miseria. Per permettere a una famiglia di vivere in modo dignitoso dovrebbe essere di 5-6 volte più alto. Una differenza che non può essere colmata solo dai produttori del Bangladesh ma anche dai brand».  

E la violenza sessuale?
«Molti casi non sono necessariamente stupri, ma molestie verbali e fisiche, che in virtù di un tabù culturale vengono tenute sotto silenzio. Per fortuna oggi le donne hanno iniziato a parlare. Ma è necessario prevenire, per questo abbiamo bisogno di una legge che protegga le donne e i minori».

Lei ha spesso denunciato la piaga del lavoro minorile.
«È stato eliminato nel settore manifatturiero legato all’export, ma resiste nei subappalti. Il lavoro minorile è strettamente legato al problema degli stipendi: se sono bassi i genitori sono costretti a mandare i figli in fabbrica». 

Che cosa fa la Bcws?
«Istruiamo i lavoratori sui loro diritti, formiamo le donne affinché abbiano una voce e la facciano sentire. E poi diamo assistenza legale». 

Le leggi in Bangladesh sono adeguate?
«Negli ultimi due anni sono state modificate un po’ di volte ma non sono ancora pienamente rispettose dei diritti degli operai. Devono cambiare radicalmente, soprattutto sui temi della sicurezza delle donne e dei risarcimenti. C’è bisogno di una grossa spinta in questo senso, ma è difficile perché politica e business sono spesso legati. Se i legislatori sono anche i padroni delle fabbriche, il ruolo che possiamo giocare è molto limitato. Ma puntiamo sulla solidarietà a livello globale: lavorare con Ong, sindacati, consumatori per mettere sotto pressione i brand che, a loro volta, impongano ai produttori buone pratiche». 

Adidas, Calvin Klein, Uniqlo, Zara... Più di 200 marchi hanno firmato l’accordo internazionale per rendere le fabbriche più sicure. Ma altri brand si sono rifiutati.
«Stiamo per lanciare la campagna Dirty Dozen e menzioneremo i brand che non hanno ancora firmato. Non vogliono prendersi responsabilità aggiudicandosi la fetta più grossa della torta sfruttando i lavoratori». 

E noi consumatori cosa possiamo fare di concreto?
«Lei è parte di un mondo dove i potenti sono tali proprio grazie ai consumatori, soggetti al centro degli interessi dei brand. A volte, quando la gente si rende conto delle condizioni nei Paesi produttori, si sente in colpa per i vestiti che compra. Vorrei dire questo: non sentitevi in colpa, arrabbiatevi. La prossima volta che vi recate in negozio o fate shopping online, andate oltre il prezzo, la taglia, il colore, lo stile. Fate domande ai commessi, ai brand. Chiedete se i lavoratori che hanno confezionato i vestiti hanno un salario adeguato, se hanno un sindacato, assistenza  sociale, se nelle loro fabbriche c’è violenza sessuale, se sono sicure. Se farete questo, qualche campanello inizierà a suonare negli uffici dei boss. Comprare e basta non aiuta i lavoratori. Noi non supportiamo la fast fashion a basso costo. Chiedetevi: aiuta qualcuno? Perché non acquistare moda sostenibile, pagare magari di più ma supportare le condizioni e i salari di chi c’è dietro?».

Una certificazione potrebbe aiutare?
«Non sono una fan delle certificazioni perché non seguono tutta la filiera. Avere cotone certificato biologico non significa che sia stato lavorato in una fabbrica dove gli operai sono trattati bene. Una fabbrica “verde” non garantisce potere contrattuale agli operai, magari è solo uno sweatshop a emissioni zero. Meglio combattere continuando a fare domande, vedere se ci sono miglioramenti su tutta la linea. Poi potremmo parlare di certificazioni». 

Non è così facile avere informazioni attendibili da questa parte del mondo.
«In un certo senso è vero. Ma se 30 anni fa sono stati introdotti i primi meccanismi di controllo è stato grazie ai consumatori. Perché non chiedere la piena trasparenza nella filiera?». 

È ottimista per il futuro?
«Sono una sognatrice. Ho iniziato a lavorare a 12 anni e lotto ogni giorno per la dignità nelle fabbriche che si ottiene con salari adeguati, sindacati, norme di sicurezza e contro le violenze. Continuerò fino a ottenere un risultato: non solo in Bangladesh, ma in tutti i Paesi produttori».