Pellet in Veneto, la tempesta perfetta. Prezzi triplicati e magazzini vuoti

La rabbia degli operatori: «Viviamo di importazioni e con la guerra si sono chiusi tanti canali di approvvigionamento»
Flash numero uno: le bollette del gas schizzano alle stelle. Flash numero due: il prezzo del pellet triplica. Flash numero tre: gli alberi abbattuti da tempesta Vaia sono ancora abbandonati nei boschi veneti.
Tre situazioni che hanno a che fare con lo stato di salute di un comparto, quello della filiera legno-energia, e con la frustrazione di chi ne subisce i mutamenti attuali.
In mezzo a questa tempesta perfetta, come la definisce l’associazione di categoria Aiel, ci sono come sempre i consumatori, disorientati e preoccupati per i costi domestici in salita verticale. Ma tra incudine e martello si trovano anche i rivenditori e perfino i produttori, visto che in Veneto ci sono i due più grandi fabbricanti d’Italia di pellet.
Nella cornice di una nazione che, è bene specificarlo, vive all’85% di importazione. Poi, un bel giorno, anche il presidente della Regione Veneto Luca Zaia ci mette il carico da novanta: «In Austria il pellet costa un terzo».
Abbiamo provato a ripercorrere la filiera, da valle a monte, dal negozio in cui si vende il singolo sacco fino allo stabilimento in cui vengono prodotti i cilindretti di legno compresso che il prossimo inverno dovranno supplire al gas venduto al prezzo dell’oro.
Si parte quindi da Diego Carlin, titolare di una falegnameria a Trichiana (Belluno). Realizza arredamenti su misura ma 6 anni fa, quasi per caso, si è messo a commerciare sacchi di pellet. «C’era un cliente che non pagava, mi feci rimborsare in bancali di pellet. Ne presi 12, lo vendevo a 4 euro e 20 centesimi al sacco. Oggi lo stesso prodotto è sul mercato a 12 euro e 50 centesimi. Ma attenzione, io lo pago 10 euro e 30 cent. Per me è il guadagno è minimo», racconta il commerciante, mostrando la bolla da 14 mila 493 euro che dovrà pagare per il carico appena arrivato.
«Il giro d’affari è aumentato quasi del 20%, perché il pellet non si trova e quel poco che c’è viene venduto a costi esorbitanti. Alcuni colleghi hanno scelto di non venderlo per protesta. E io non riesco più a dare il giro alle richieste».
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Diego Carlin aveva capito in anticipo che quest’anno sarebbe stato complesso e così lo scorso mese di maggio si è presentato alla Fiera del fuoco di Verona per prendere contatto con i produttori. «Ho parlato con 49 standisti e tra questi soltanto uno mi ha detto che, forse, sarebbe stato in grado di mandarmi materiale. Una situazione del genere non si è mai verificata prima d’ora».
I canali di rifornimento di Carlin sono sostanzialmente tre. C’è La TiEsse di Cimadolmo (Treviso), la Agriplant di Conegliano e la Bomodì Srl di Foggia. Un’altra realtà importante è “L’emporio del Montello”, che fa da intermediario con aziende in Romania, Ucraina e Lituania.
Due conti per dare la misura. Per riscaldare con il pellet una casa di 100 metri quadrati ci vogliono circa 140 sacchi (2 bancali), con i prezzi attuali si spenderebbero 1.680 euro. E se una famiglia decidesse di alimentare anche la caldaia, in quel caso servirebbero 4 bancali, per una spesa totale di 3.360 euro.
Dunque per andare al cuore del problema bisogna uscire dalla provincia di Belluno e scendere nella Marca trevigiana. A Conegliano c’è la sede della Agriplant, che a Majano, in provincia di Udine, detiene uno stabilimento per la produzione del pellet. Adriano Dall’Ongaro e la figlia Silvia guidano questa azienda da 30 milioni di fatturato.
«Fino a marzo il pellet era venduto a un prezzo quasi normale: 250 euro a tonnellata. L’Europa lo importava da mezzo mondo, tra cui Russia, Bielorussia e Ucraina: circa 3 milioni e mezzo di tonnellate l’anno. Poi è scoppiata la guerra e il pellet è sparito, anche perché con le sanzioni non può essere importato», spiegano i due imprenditori.
L’uomo della strada però si chiede per quale motivo non vengano utilizzati gli alberi abbattuti da tempesta Vaia.
«L’80% degli alberi di Vaia è finito in Austria, Slovenia e Cina. L’Austria ha un mercato del legno ben strutturato, con segherie grandi come paesi dove viene facile riutilizzare gli scarti della propria lavorazione. In Italia non c’è niente di simile». Dunque, per stessa ammissione degli operatori del settore, anche chi produce pellet in Italia lo fa, in quota parte, con materie prime importate dall’estero. Per un corto circuito tutto italiano il legno degli alberi abbattuti da Vaia è stato comprato dall’Austria che ora lo rivende all’Italia a prezzi esorbitanti. L’ultimo anello della catena è chiaramente il consumatore, costretto a spendere 12 euro al chilo per scaldare la propria casa.
Serbia e Bosnia hanno bloccato le esportazioni. Prima si soddisfa il mercato interno, poi si vede. «L’Italia è il primo consumatore e l’ultimo produttore», ragiona Adriano Dall’Ongaro. «Purtroppo molte stufe resteranno vuote il prossimo inverno, noi stimiamo circa il 40%».
A 15 chilometri di distanza da Agriplant c’è la TiEsse di Cimadolmo, il produttore numero uno di pellet a livello nazionale.
Domenico Dal Tio analizza la situazione con lucidità: «Quello che è successo dopo Vaia è frutto di una gestione forestale poco attenta alle esigenze degli operatori nazionali. Il Cadore era una potenza dal punto di vista del legno, era all’avanguardia. Ma questo primato è via-via sfumato a causa di una inadeguata gestione forestale. L’Austria è l’esempio di come questo comparto possa portare benessere e lavoro».
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«Noi stiamo vivendo un momento di estrema incertezza per via dei costi energetici, di imballaggio e per le materia prime che costano ogni giorno di più. I nostri magazzini sono semivuoti, non è mai successo prima».
Infine, qualche operatore del settore si è sentito offeso dalle parole del presidente Zaia sulla differenza di prezzo tra Austria e Italia. Prezzo che, come verificato, è esattamente lo stesso.
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IL FENOMENO
Stufe e camini, la domanda cresce ovunque
Ma le vendite aumentano sempre più verso l’estero
L’aumento del prezzo del gas e i timori per il taglio delle forniture hanno determinato negli ultimi mesi un aumento delle vendite di stufe e caminetti a legna e pellet in Italia e in altri Paesi europei.
Secondo i primi dati disponibili del 2022 raccolti da Aiel, tra le aziende associate al gruppo apparecchi domestici le stime indicano un aumento totale delle vendite di stufe del +28% a maggio rispetto ai primi 5 mesi del 2021, con una crescita del mercato interno del 8,7%.
Più importante risulta l’aumento delle vendite verso l’estero, che rispetto ai primi 5 mesi del 2021, ha registrato un +40%, per un totale di 121.102 apparecchi esportati tra gennaio e maggio 2022, con una prevalenza degli apparecchi a pellet (104.398, +37, 3%) rispetto alla legna, comunque in crescita del +60,8%.
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L’ESPERTA
«Sarà fondamentale avviare politiche nazionali per ridurre l’export»
Annalisa Paniz, direttrice di Aiel, l’associazione di categoria: «Gli stati europei privilegiano il fabbisogno interno, a noi le briciole»
«Questa situazione spinge molti consumatori a chiedersi se il mercato del pellet stia vivendo gli effetti di una speculazione giustificata solo in apparenza dalle tensioni internazionali. In realtà, il mercato del pellet sta affrontando una “tempesta perfetta”, alimentata da un fitto insieme di fattori concomitanti».
Annaliza Paniz, direttrice di Aiel (associazione italiana energie agroforestali), quali sono i fattori di cui parla?
«Innanzitutto, è necessario ricordare che l’approvvigionamento italiano di pellet dipende dalle importazioni dall’estero che prevalgono nettamente rispetto alla produzione nazionale. Questa condizione fa sì che le incertezze e le tensioni dei mercati internazionali investano anche il nostro mercato. Uno dei driver principali delle difficoltà attuali è sicuramente la guerra in Ucraina, per ragioni sia dirette sia indirette».
Può spiegare in modo preciso in che modo la guerra impatta sul pellet?
«In seguito all’aggressione militare russa, l’Unione Europea ha varato una serie di sanzioni economiche che, tra gli altri prodotti, hanno previsto il bando delle importazioni di legname proveniente da Russia e Bielorussia. Il venire meno dei flussi russi e bielorussi, e l’ovvia riduzione dei flussi ucraini, ha determinato una contrazione diretta del mercato italiano del pellet non inferiore al 10% delle quantità commercializzate annualmente nel nostro Paese».
Ma i paesi europei non possono aiutarsi a vicenda?
«Le nazioni che si approvvigionavano maggiormente da Russia e Bielorussia hanno ridotto le proprie esportazioni per soddisfare i propri fabbisogni interni e i flussi d’export residui hanno subito repentini rialzi nei prezzi. Si stima che, a livello europeo, l'interruzione dell’approvvigionamento da Russia, Bielorussia e Ucraina abbia creato una carenza complessiva di circa 3 milioni di tonnellate di pellet. Alcuni Paesi (Bosnia Erzegovina, Ungheria, Serbia) hanno addirittura introdotto alcune misure protezionistiche volte a tutelare i propri mercati interni, accentuando quindi le difficoltà dei commerci internazionali».
Dunque è solo un problema di importazioni?
«Non solo. Oggi il segmento domestico non ha alcuna capacità di calmierare i prezzi a causa di una feroce concorrenza con il settore industriale di Paesi come Regno Unito, Belgio, Danimarca e Paesi Bassi: le grandi centrali continueranno ad aggiudicarsi il pellet, sottraendolo al mercato domestico, fino a quando potranno acquistarlo a prezzi elevati, comunque convenienti rispetto ad altre opzioni energetiche».
Secondo lei qual è la soluzione?
«Nel 2023 verranno inaugurati 11 nuovi impianti produttivi in Austria, mentre in Francia la capacità produttiva nazionale potrebbe addirittura raddoppiare entro il 2028. Anche in Italia si registra un nuovo e recente interesse per l’insediamento di nuovi impianti locali di produzione di pellet. L’avvio di politiche nazionali volte ad aumentare la produzione sarà quindi fondamentale per ridurre la dipendenza dalle importazioni estere». —
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