L’editoriale del direttore | La memoria e l’innocenza
Nei grandi cimiteri il lutto e la memoria a volte si fanno aiutare dalla geometria: lo spazio è percorso da linee essenziali. Sul prato verde di Fortogna, in quelle lunghissime file di nomi, lascia un segno di marmo ogni persona morta nel disastro della diga del Vajont
Fabrizio Brancoli
C’è un prima, c’è un poi e c’è un mai. A Fortogna, sulla stele di vetro che presenta il portale di ingresso al cimitero delle vittime del Vajont, è stata impressa una frase in dodici lingue: “Prima il fragore dell’onda, poi il silenzio della morte, mai l’oblio della memoria”. Le prime due espressioni descrivono che cosa è accaduto il 9 ottobre di sessant’anni fa. La terza, invece, è un impegno collettivo. Chi difende quel “mai”? Chi mantiene la promessa della memoria?
Una cinquantina di cittadini volontari arrivano al cimitero con spugne, secchi, bruschini, bicarbonato. Si organizzano, si dividono le file dei millenovecentodieci cippi e si mettono al lavoro per due giorni a fianco dei dipendenti comunali e della protezione civile. É una cosa importante quanto semplice; ed è silenziosa, non si fa chiasso tra le tombe. La spazzola, la schiuma e l’acqua, una lapide dopo l’altra; pulire la pietra diventa una specie di carezza, una cura. I cippi erano anneriti dal tempo e serviva un intervento, il sindaco di Longarone aveva rivolto un appello e questa è la risposta.
Nei grandi cimiteri il lutto e la memoria a volte si fanno aiutare dalla geometria: lo spazio è percorso da linee essenziali. Sul prato verde di Fortogna, in quelle lunghissime file di nomi, lascia un segno di marmo ogni persona morta nel disastro della diga. Un cippo per ogni vita, tutti uguali per storie diverse. Dal bambino di ventuno giorni all’anziana di novantatrè anni. Con questo gesto di rispetto da parte della gente, quelle storie tornano bianche, immacolate. È il colore che si deve agli innocenti.
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