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Infarto: muore di più chi guadagna di meno

Infarto: muore di più chi guadagna di meno
Il timore di non farcela economicamente aumenterebbe di oltre 60% il rischio di morte nelle persone anziane nei sei mesi che seguono l'infarto. Ci vuole particolare attenzione alle condizioni sociali dei pazienti fuori dall'ospedale
3 minuti di lettura

L'Italia non è l'America, sul fronte dell'assistenza e della disponibilità delle cure. Ma anche da noi, lo specialista dovrebbe prestare attenzione alle condizioni economiche di una persona che ha avuto un infarto, per mettere in atto misure di supporto che possono migliorare la prognosi a distanza dell'attacco cardiaco, soprattutto per nella terza età.

Le sole difficoltà economiche di chi torna a casa dall'ospedale potrebbero aumentare del 60% il rischio di decesso nei sei mesi successivi all'attacco ischemico acuto. A lanciare l'allarme su questo aspetto, spesso non troppo considerato, è una ricerca condotta da esperti dell'Università del Maryland e di Yale coordinati da Jason R. Falvey, Alezandra Hajduk, Christopher Keys e Sarwat Chaudhry, pubblicata su JAMA Internal Medicine.

Lo studio

Gli esperti hanno preso in esame i dati emersi dall'analisi "Silver-Ami" che segue una popolazione di pazienti anziani con infarto per valutarne proprio gli esiti in termini di salute. In particolare, si sono considerati i ricoverati in ospedale in diverse aree degli Usa tra il 2012 e il 2016, considerando la loro situazione economica.

Sono state create tre categorie: nella prima sono stati inseriti i soggetti che avevano una buona disponibilità finanziaria, nella seconda quelli che riuscivano a tirare avanti senza particolari patemi e nell'ultima che aveva problemi finanziari gravi. Tra chi aveva soldi più che sufficienti per pagare le bollette, il 7,2% è morto entro sei mesi dalla dimissione dall'ospedale. Tra quanti avevano invece solo una copertura tranquilla delle spese, la percentuale di decessi è salita a 9%. Purtroppo tra chi invece si è dichiarato in chiara difficoltà economica, è deceduto il 16,8% delle persone seguite.

Ovviamente questi dati grezzi sono poi stati "depurati" considerando condizioni di salute, in primo luogo la presenza di altre patologie, e stato del processo di invecchiamento. Ed è a quel punto, considerando solo la situazione economica, che si è arrivati a definire l'incremento di rischio di morte legato al solo fattore finanziario.

Risultato: chi aveva pesanti difficoltà economiche ha avuto il 61% di probabilità in più rispetto ai pazienti che non avevano segnalato alcun problema in questo senso, entro i sei mesi successivi a un infarto. Secondo gli esperti, il dato che emerge ha importanza sul fronte epidemiologico, visto che solo si tratta di un'osservazione.

La sola terapia non basta

Tuttavia si può ipotizzare che la mancata disponibilità di seguire perfettamente un trattamento farmaci legata alle difficoltà economiche (il sistema di pagamento negli Usa è diverso rispetto all'Italia, dove i medicinali vengono comunque assicurati ed occorre puntare soprattutto sull'aderenza alla terapia), insieme all'azione dello stress emotivo legato alle carenti risorse economiche potrebbero aver giocato un ruolo nel determinare la situazione.

Consiglio finale: quando si ricovera un anziano per un infarto appare fondamentale mettere in atto sistemi di "protezione sociale" alla dimissione che consentano di far fronte ad eventuali problemi di tipo economico. Dovremmo partire dal volume di Michael Marmot, direttore dell'Institute of Health Equity dell'University College di Londra, che inizia con una domanda: "Perché curare le persone e rimandarle alle condizioni che le hanno fatte ammalare?" Insomma: le persone vanno curate, ma non basta. Si devono affrontare anche i problemi che le fanno ammalare.

Le differenze tra gli Usa e la realtà italiana

"Chiaramente negli Usa, caratterizzati da una sanità privata, l'aspetto economico del costo delle prestazioni sanitarie e dei farmaci gioca un ruolo ben diverso rispetto a quello di un sistema universalistico e pubblico come quello italiano - spiega Marcello Montefiori, Direttore del Centro Studi Aphec del dipartimento di Economia dell'Università di Genova. Per esempio, il problema dell'accesso al farmaco, negli Usa, è principalmente riconducibile al costo del farmaco. Ben diversa la situazione nel nostro Paese dove i farmaci "importanti" sono offerti gratuitamente dal sistema sanitario nazionale. Ciononostante, i dati ci dicono che, anche in Italia, le condizioni di povertà e lo svantaggio sociale sono associati ad un peggior stato di salute. Si nota per esempio la non "equità" di molte patologie croniche che colpiscono proporzionalmente di più le fasce meno abbienti e meno istruite della popolazione. Esiste infatti una relazione stretta tra livello di istruzione, reddito, malattia e morte".

Per esempio, se guardiamo alla popolazione con un livello di istruzione di scuola media inferiore, ci accorgiamo che essa rappresenta il 50% della popolazione italiana. Questo gruppo però rappresenta il 73,5% di coloro che hanno almeno una patologia cronica. Simmetricamente i dati ci dicono che, se da un lato la percentuale di italiani con una laurea è del 14%, solo il 5% di coloro che hanno almeno una patologia cronica è laureato.

Il ruolo del livello di istruzione e dello stile di vita

"In parte questo è conseguenza dei diversi stili di vita: obesità, sedentarietà e abitudine al fumo sono infatti comportamenti particolarmente diffusi tra chi ha un basso livello di istruzione - riprende Montefiori. Anche la speranza di vita è influenzata dal cosiddetto "gradiente sociale": nel rapporto BES 2020, l'Istat rileva che, sebbene già fossero rilevabili significative diseguaglianze nei tassi di mortalità a sfavore delle persone meno istruite, questo divario si sia ulteriormente allargato in corrispondenza della prima ondata Covid, in particolare per le fasce centrali della vita e tra le donne. Questi sono risultati di grande importanza in una logica di politica socio-sanitaria perché forniscono una chiave di lettura diversa e nuove indicazioni per le scelte di allocazione delle risorse".

"In altri termini - conclude - si potrebbe affermare che la salute dei pazienti si ottiene investendo (anche) fuori dalla sanità, agendo sulle determinanti sociali delle disuguaglianze di salute. Tra l'altro, la riduzione delle diseguaglianze è una delle sfide del PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza) che indica espressamente, tra i suoi obiettivi, quello di ridurre le diseguaglianze e le disparità".