Abbiamo più paura di perdere le chiavi di casa che le nostre libertà?
Internet e le tecnologie digitali hanno cambiato (anzi, rivoluzionato) le nostre vite. Nella maggior parte dei casi, le hanno semplificate e, quindi, migliorate. Pensate alla possibilità di poter lavorare senza dover essere necessariamente in ufficio. Oppure alla comodità di effettuare noiose pratiche burocratiche senza doversi recare fisicamente presso gli sportelli e affrontare lunghe code.
Spesso, poi, grazie agli strumenti digitali, abbiamo la possibilità di rimediare ad alcune umane debolezze. A chi non è mai capitato di dimenticare un appuntamento prima che esistessero le agende elettroniche (con le relative notifiche)? Oppure a chi non è mai capitato di smarrire, almeno temporaneamente, degli oggetti (come le chiavi o una borsa)?
Per risolvere questo problema, da tempo si è scatenata la corsa alla commercializzazione di dispositivi che consentono anche ai più disattenti o smemorati di riuscire sempre a ritrovare le cose smarrite.
La gara sembra essere stata vinta da Apple che, pochi mesi fa, ha messo sul mercato gli “Airtag”, piccolissimi dischetti (sono grandi poco più di una moneta da due euro) che possono essere attaccati a borse o portachiavi in modo da consentirne la geolocalizzazione precisa. Gli Airtag - che sfruttano la tecnologia bluetooth - possono essere rintracciati con precisione proprio perché possono contare sulla rete dei milioni di dispositivi Apple presenti nel mondo. Un qualunque dispositivo Apple che si trovi nelle vicinanze del nostro Airtag, infatti, può riconoscerlo e inviarci l’esatta ubicazione.
Insomma, Airtag nasce per difenderci da disattenzione, sbadataggine e dai criminali (ad esempio, in caso di furto).
Eppure, come spesso accade, anche le tecnologie nate con le migliori intenzioni possono essere utilizzate per fini malevoli. Gli Airtag sono progettati per rintracciare le cose, ma possono essere facilmente utilizzati anche per spiare e monitorare le persone (visto che possono essere nascosti con molta semplicità in una borsa, in una tasca, in un’autovettura). Insomma Airtag - che è anche un prodotto economico - può essere utilizzato come stalkerware (termine impiegato per identificare quelle tecnologie che possono essere impiegate per spiare e controllare altre persone).
Esperti e attivisti per le libertà digitali lo hanno fatto notare fin da subito. Dal canto suo, anche Apple - che ha fatto della sua attenzione per la privacy addirittura un elemento di comunicazione commerciale - è stata fin dall’inizio consapevole di questi rischi e ha provato ad adottare alcune contromisure. Se un Airtag che non è nostro si sposta con noi (senza il suo proprietario), viene visualizzato un avviso (per chi ha iPhone) oppure viene attivato un allarme acustico in modo che possiamo trovarlo e disattivarlo.
Tuttavia, in tanti hanno fatto subito notare che queste protezioni sono in generale inadeguate, specialmente nel caso di abusi domestici.
A seguito di queste rimostranze, Apple ha ridotto l’intervallo di tempo dopo il quale un Airtag abusivo segnala la propria presenza. Inizialmente questo lasso di tempo era di 3 giorni, adesso è sceso ad un intervallo variabile tra le 8 e le 24 ore.
Tuttavia, questo non è ancora sufficiente. Anche otto ore sono sufficienti per ricostruire con precisione ogni nostro movimento e permettere di rintracciare la nostra casa o altri luoghi che frequentiamo spesso. Insomma, l’avviso di essere “seguiti” potrebbe arrivare ancora troppo tardi.
Per non parlare del fatto che è possibile ricevere un avviso sullo smartphone solo se abbiamo un iPhone, ma non se abbiamo un dispositivo Android. In questo caso, l’unico modo per accorgerci di essere spiati è il segnale acustico emesso dall’Airtag. Ma si tratta, in verità, di un avviso assai debole che potremmo non percepire o identificare facilmente.
Anche in questo caso, Apple ha provato a correre ai ripari dicendo che entro fine anno metterà a disposizione degli utenti Android un’app da scaricare per identificare eventuali Airtag indesiderati.
La toppa, però, sembra quasi peggiore del buco. Bisogna essere costretti a scaricare un’app per verificare di non essere spiati? È questo il concetto di libertà a cui devono rassegnarsi coloro che non sono utenti Apple?
Colpisce che un’azienda che si dichiara attenta alla privacy come Apple e che si è contraddistinta per atteggiamenti protettivi (come a seguito dell’ultimo aggiornamento del sistema operativo iOS in cui è possibile per gli utenti disattivare facilmente il tracciamento delle applicazioni), abbia messo in commercio uno strumento che può essere facilmente utilizzato in modo scorretto, senza un’adeguata applicazione dei principi di security e privacy by design (che pure sono stati introdotti dal nuovo regolamento in materia di protezione dei dati personali, il famigerato GDPR).
Ma, forse, la cosa che più stupisce è che tutta questa vicenda sia passata (e sia ancora) praticamente sottotraccia. Recentemente, Altroconsumo ha presentato una segnalazione al Garante Privacy affinché apra un’istruttoria, ma per gli utenti la scarsa attenzione alla privacy di Airtag non sembra essere un problema. Per settimane i nuovi dispositivi sono andati talmente a ruba da risultare praticamente introvabili. Insomma, la cosa davvero preoccupante è che in pochi si siano accorti dei rischi di questa tecnologia.
Pur essendo ormai cittadini e consumatori digitali, non sappiamo riconoscere e comprendere i rischi della sorveglianza e del tracciamento. E così, finisce che siamo più preoccupati di perdere le chiavi di casa che le nostre libertà.